FOLKLORE CAPRESE: “LA SAGRA DELLA MARUZZA”
di Renata Ricci Pisaturo
Le prime piogge dopo il Ferragosto, invocate come si può invocare un’oasi in pieno Sahara, veri temporali con fulmini, tuoni, rimbombi e cascate d’acqua da far pensare che il Signore se ne fosse scordato, portano, nel microcosmo di Capri, quella che viene chiamata: “la rottura dei tempi”. Come per incanto, da un giorno all’altro, “il popolo blu”, il popolo da incubo che, per tutta l’estate ha corso, ha passeggiato, ha affollato i caffé e la piazzetta, è salito e sceso dalle sorprendenti balze alle sassose spiagge; tutto il popolo che lo zefiro, lo scirocco e il libeccio hanno accarezzato languidamente, portando via il profumo delle creme solari, scompare davanti ai primi scrosci, veri diluvi, che trasformano le strade in vertiginosi fiumi in piena. Chi l’ha detto che “l’isola del sole” è arida?
Ripulito lo scenario da quel velo di brume e di calura che nei mesi estivi l’ha ingrigita, Capri riacquista i suoi smaglianti colori e ridiventa il quadro d’autore qual è, firmato da Dio. Abbandona l’aria snob per riappropriarsi del suo vero volto, quello contadino, il volto di quando viveva di zappa e di reti da pesca
La mitica piazzetta, “il salotto del mondo”, diventa, da un giorno all’altro, come per incanto, una piazza qualsiasi di un qualsiasi paese. Quasi non credi ai tuoi occhi. La puoi vedere attraversata da un piccolo gregge di capre che, scese dal Solaro o da Cetrella, lì sostano nell’attesa che il pastore si prenda lo sfizio – negatogli fino a pochi giorni prima – di sedersi sulla gradinata della chiesa a gustare un cono gelato. Lì, sotto l’arco di via Fuorlovado, il venditore di gelse nere, con al braccio il suo panierino ricoperto da una foglia di fico, t’invita a comprare i succosi frutti color rubino o i dolcissimi fichi bianchi dell’isola o le prime noci fresche. Seduta all’ombra di via Longano è la venditrice di lumache, una delle tante contadine che, con le prime piogge, si sono sviate per le campagne, “sono andate a maruzze”, vera manna per la povera gente che vede di rado la carne. Le hanno messe a “pariare”, a spurgare nelle zuppiere di creta per renderle degne della prelibatezza al palato che offre “la zuppa di maruzze”, cucinata con l’antica ricetta che loro solo conoscono, profumata di pomodoro e finocchietto dell’isola.
Capri ritorna ai suoi legittimi proprietari, costretti da secoli a dissodare il terreno per far posto alle coltivazioni. È questa l’altra Capri che al vederla, non ti sembra mai di trovarti nell’isola più snob del mondo. Angoli di paradiso che rispondono ai dolci nomi di Cetrella, Cesina, Pian delle noci, Caprile, Tiberio, Matromania, Monticello, Migliara. Qui, in queste oasi di pace affacciate sul panorama più bello del mondo, si vive la vera vita di Capri. L’anima della gente è penetrata nei luoghi, rivive nei suoi personaggi caratteristici, nell’umanità e nella natura; rivive nelle sue tortuose strade. Piccole strade così piene di gioia che ti viene da sorridere solo ad imboccarle. Rivive nelle casette bianche di calce, dalle linee irregolari, dolci all’occhio, inondate dal profumo di gaggia, di gelsomino, di fiori d’arancio, a seconda della stagione; nei cortiletti con i loro pozzi e il lavatoio all’aperto, con il pergolato, i limoni e l’immancabile bougainvillea a dare una macchia di colore ai bianchi muri; nelle colonne delle piccole terrazze, ricoperte da pagliarelle di canne, nel tipico stile caprese.
La campagna di Capri è un poema a parte. In tutti i paesi della terra l’uomo fa crescere le piante che vuole lui; a Capri crescono quelle che vogliono loro e a velocità vertiginosa. Crescono fra le coltivazioni , sui massi, sugli scogli, nei posti più impensati. Non è difficile vedere spuntare un pino addirittura, in tutta la sua altezza, da un masso e ti viene da chiederti dove diavolo affondi le sue radici.
Nei tempi antichi, sotto il manto della flora endemica e privata, affioravano dappertutto “le anticaglie”, ossia il grande patrimonio archeologico sparso su tutta l’isola., ma quelle braccia monche, quei piedi, quei pezzi di colonne, quelle anfore rotte non facevano impressione. Ridotte in frantumi, le “anticaglie” venivano gettate in mare. Erano tuttavia scampate alla distruzione le rovine della più imponente delle dodici ville augustee sparse sull’isola :Villa Iovis, il Palatino di Capri, cosparso di sterpaglie a nasconderne la maestosità delle muraglie e delle arcate. Ma un giorno i “caprioti”, vedendo che i visitatori stranieri, sempre più numerosi, intraprendevano la faticosa ascesa al monte San Michele, mossi dalla curiosità ed eccitati dal desiderio di vedere i luoghi che erano stati teatro delle gesta del famigerato imperatore (oggi giustamente riabilitato), pensarono di trarre vantaggio da quelle rovine che i primi archeologi stavano mettendo alla luce. Incominciarono col portare a casa “le anticaglie” che trovavano, ad addobbarne i loro giardini, le loro terrazze ed incominciarono a dare la dovuta importanza ai ruderi della reggia di “Timberio”. Si ricordarono, altresì, che l’ 8 settembre ricorreva un anniversario importante: quello di Santa Maria del Soccorso.
Sugli ultimi spalti delle rovine del Palazzo Imperiale, un antico canonico, don Costanzo Serena, irriverentemente chiamato “Sciabolone” dal popolino avvezzo ad affibbiare soprannomi, per via di quel suo naso adunco, nei primi del ‘900 aveva fatto costruire una chiesa là dove, per altro, preesisteva l’eremo di fra Giovanni, un frate del Terzo Ordine Francescano. L’aveva intitolata a Santa Maria del Soccorso e, onde esorcizzare l’ombra di Tiberio, l’aveva sormontata con una statua della Vergine, tutta dorata per renderla più visibile, col viso rivolto verso il mare a protezione dei naviganti dalle tante bufere che investivano l’isola a partire dall’autunno. (Oggi la statua è in bronzo dopo che la precedente, per altro già priva dell’originale doratura, venne distrutta da un fulmine nel 1979).
Ne aveva istituita la festività il giorno 8 settembre, giorno della nascita della Madonna e i primi festeggiamenti videro la “bella Carmelina”, emula della romana “saltatrix”, ballare al ritmo del tamburello davanti alla sua locanda, la più antica dell’isola, per la gioia dei primi forestieri arrivati fin lassù e rievocare loro le dionisiache orge che avevano rallegrato il dorato esilio dell’imperatore
A Capri gli anniversari non fanno né caldo né freddo: passano inosservati, ma quando si tratta di onorare un loro santo, gli isolani si fanno in quattro, sia quelli di Capri, sia quelli di Anacapri, i due comuni eternamente rivali. Pensarono quindi, i caprioti, di rinverdire questa festività e, da popolo festaiolo qual è, unire il sacro al profano, l’inno alla Vergine e l’inno a Bacco, a memoria degli antichi baccanali E poiché la chiesa di Santa Maria del Soccorso è ubicata nel rione di Tiberio, il più antico e storico del monte San Michele, i tiberiani, secondo un rito che si tramanda da padre in figlio, si fecero carico di organizzare i festeggiamenti.
Un accenno su questo antico rione: “andare ‘ncoppa a Tiberio” non significa soltanto salire sul monte San Michele per raggiungere la residenza del tanto vituperato imperatore sulla cima più alta che porta il suo nome. Significa anche intraprendere la salita diretti verso un luogo residenziale di storia recente, di archeologia e storia remota e naturalistico di storia perenne. Si comincia con la macchia che sovrasta il quadrivio di Sopramonte, sorta di termometro della stagione isolana poiché annunzia la primavera tingendo di mille colori le piante – con una spiccata predilezione per l’oro delle ginestre – e l’inverno allorché, spenti i rossi, gli azzurri e i gialli tutto diventa verde cupo.
Passata questa macchia mediterranea-caprese (sono presenti nell’isola più di cento piante che crescono solo lì) ci s’inoltra verso la sommità del monte Tiberio. Da qui in poi siamo in piena Capri contadina, storicamente parlando, nella quale si distaccano le grandi ville di Moneta, Monetella e La schiava con i loro bei viali colonnati e i pavimenti in maioliche decorate, originali dell’800. La presenza della colonna in marmo o in cemento imbiancato a calce, a ricordare quelle che abbellivano i porticati delle ville romane, divenne così familiare a Capri, da esser presente anche nell’edilizia popolare e a dare origine a quello che viene chiamato “lo stile caprese”.
Si prosegue poi con la “Passeggiata archeologica”- ancora ricoperta da basole romane fra le quali affiora qualche soglia prelevata dalle rovine della reggia – che porta dritto agli scavi, passando davanti al grande Parco Astarita, donato al Comune dal suo proprietario, a strapiombo sul mare, con i suoi molti sentieri e viali di cipressi
La zona, nell’800 fu tutta un vigneto in virtù dell’arte contadina di un “guerriero” napoleonico, capitato a Napoli dopo la sfortunata vicenda dell’imperatore a Sant’Elena e, da qui, trapiantato a Capri. Si chiamava Joseph Bourgeois, corso di Bastia; portava in petto la medaglia di Sant’Elena dei fedelissimi di Waterloo. Sposò una ricca isolana e, divenuto sindaco, mise a frutto le sue qualità campagnole dissodando terreni e piantando vigneti.
Il rione ha mantenuto anche con le moderne costruzioni questa fisionomia: gli orticelli delimitati da bassi muretti in pietra viva, carrubi, fichi d’india, profumati boschetti di alloro e di mirto, vigneti e agrumeti e un labirinto di piccole strade sterrate, che danno la scalata al Monte San Michele.
Gli abitanti di Tiberio, orgogliosi depositari di questa tradizione, riuniti in comitato da oltre 80 anni organizzano la festa che, coincidendo con la Piedigrotta Napoletana, viene chiamata Piedigrotta Tiberiana e La Sagra della maruzza, poiché comprende un percorso enogastronomico nel quale il piatto clou è proprio quello costituito da quest’umile mollusco gasteropode.
Mi piace ricordarla come l’ho vissuta nei tempi d’oro dell’isola, negli anni sessanta e settanta, con la poesia di quei tempi. Già da giorni prima iniziavano i preparativi che vedevano gli uomini indaffarati a delimitare il percorso enogastronomico lungo la via Tiberio e la “ Passeggiata archeologica”, con filari di festoni e di lampadine colorate; ad allestire gli stand per la degustazione dei prodotti locali e ad addobbare le terrazze e i balconi con lampadine multicolori, palloncini veneziani e ghirlande, onde aspirare al premio per il migliore addobbo.
Le donne, tutte le donne del rione, erano invece addette a preparare le saporitissime pietanze che sarebbero comparse nel menù al modico prezzo di 10.000 lire a biglietto, che si comprava ad inizio percorso e comprendeva anche un bicchiere di vino, il rosso vino dei vigneti tiberiani. Le pietanze erano costituite da parmigiane di melanzane, coniglio alla cacciatora, grigliate di salsiccia e naturalmente dalla pietanza per eccellenza: la gustosissima e profumata “zuppa di maruzze”, cucinata secondo un’antica ricetta isolana. Il vino dei vigneti tiberiani, spillato direttamente dalle botti poste lungo il percorso, veniva a completare il dono che gli abitanti di Tiberio, insieme alle pietanze, facevano alla cittadinanza in onore della Madonna. Dolci di tutte le specie, anguria e bibite e, naturalmente vino, completavano il ricco menu, come extra.
Era uno spettacolo vedere di sera tutta la montagna ricoperta, come un grande albero di Natale, da mille luci multicolori e sulla rupe le imponenti rovine illuminate da fari. Ci si sedeva a mangiare, ognuno con il suo vassoio di cartone sui massi della vallata di Cesina, sottostante gli scavi di Villa Jovis, per veder ballare la tarantella dalla locale banda di Scialapopolo, ed ascoltare i bravissimi cantanti che si esibivano nel costume regionale e suonando i tipici rudimentali strumenti del folklore campano: tamburelli, “putipù”, “scetavajasse” e così via. Si cantava e si ballava fino a notte inoltrata. Era la festa più allegra dell’isola, insomma, tipicamente caprese e disdegnata dai turisti snob. Rappresentava per i capresi quello che per i romani è la “festa de no’antri”, la festa che viene celebrata a Roma il 24 giugno sullo sfondo suggestivo della basilica di San Giovanni in Laterano. (Per inciso, anche a Roma, in quella festa mangiano le lumache, notoriamente cornute, contro il malocchio). Oggi la festa vede i cantanti alla moda e tutto l’apparato elettronico che si portano dietro, ma io rimpiango quei tempi.
La mattina del giorno 8 il suono della campana della chiesa di Santa Maria del Soccorso annunziava agli ancora assonnati isolani la prima messa, seguito da una raffica di fuochi d’artificio che sarebbero continuati nel pomeriggio all’uscita della processione col Santissimo sul piazzale degli scavi e a mezzanotte, a chiusura dei festeggiamenti, nello spettacolo più suggestivo: l’incendio delle rovine con una cascata di fuoco, che dall’alto degli spalti avvolgeva i muraglioni in una enorme vampata rossa, ben visibile in tutta l’isola. I canti e i balli continuavano per tutta la notte, coinvolgendo tutti. .
Lì di fronte, a contrastare tanta allegria, nel silenzio incantato della notte, il golfo di Napoli, si apriva con le sue mille luci e, ben visibile, la collana di perle del lungomare. Il promontorio della Campanella, proprio lì sotto, sembrava protendere il suo braccio verso l’isola in festa, quasi a ghermirla, a volersi riappropriare di questo lembo di terra a lei unita nella gioventù del mondo, che solo Capri conserva. Ma il distacco è irreparabile. Non fu dovuto solo alla grande deflagrazione dei fuochi d’artificio scaturiti dai vulcani sommersi a festeggiare la buona riuscita dell’opera compiuta nel suo aspetto definitivo, ma all’ anima dei luoghi, che quel pezzo di terra racchiudeva e che rimaneva chiusa in esso: isolato per sempre dal resto del mondo avviato verso la rovina.