IL FASCINO DISCRETO DI ANACAPRI
di Renata Ricci Pisaturo
“Io canterò di te, verde Anacapri/ dirò di quel silenzio che ti chiude/ come una veste; canterò la pace/ che in te fluisce come fosse sangue, / l’oro della ginestra che incorona/ la montagna, dell’elce e del carrubo/ che fan sì grata l’ora del meriggio./ Dirò del fico d’india, che le palme/ aperte offre alle stimmate del sole./ Ma ora è tardi, già declina il giorno/ e l’ombre fanno azzurra la montagna./ Senti quel lieve pigolio d’uccelli,/ quello sfrascare basso fra i cespugli?/ S’è fatto tardi ormai, bisogna andare./ Ecco qui su Tiberio un po’ di luna / una virgola appena, è luna nuova/ un’altra volta… Or io discenderò/ per quella via tra la montagna e il mare/ e una lucciola avrò per compagnia.”
Così i versi della poetessa-giornalista Alma Siracusa Vuotto, incisi su una lapide in una delle più belle passeggiate di Anacapri: viale Axel Munthe. In essi è tutta l’anima di questo secondo centro abitato dell’Isola Azzurra, meno noto della mondana Capri, ma sicuramente più suggestivo come possono esserlo le bellezze recondite.
Le bianche casette con le volte a botte, “abbuffate”(da qui il nome), in un’architettura rurale, povera, essenziale, semplice, originariamente sparse sulle pendici del Solaro nei secoli scorsi, costruite molto spesso dagli stessi contadini improvvisatisi “mastri” muratori, hanno a poco a poco invaso l’altopiano avvicinandosi ai campi ubertosi più caldi, esposti a mezzogiorno e a ponente. La volta a botte è diventata la volta tipica caprese, pratica ed elegante, usata in tutte le costruzione sorte in seguito. Il grande sindaco dell’Ottocento, Edwin Cerio, volle farla sua ed imporla alla sua isola aggiungendo colonnine e pagliarelle e creando “lo stile caprese”, noto in tutto il mondo.
Queste coperture a botte, impastate con calce, pozzolana e un leggero strato di lapillo, di chiara derivazione romana, hanno dato il nome al quartiere Le Boffe, considerato senza dubbio il cuore antico di Anacapri ed il più caratteristico fra i quattro quartieri nei quali è diviso il paese: Le Boffe, La Porta, Le Stalle, Le Pietre. Iniziato a popolarsi alla fine del Seicento con l’edificazione della Chiesa di Santa Sofia e la ristrutturazione del Convento delle Suore Teresiane, unitamente alla Chiesa di San Michele Arcangelo, è da considerarsi una vera opera d’arte a cielo aperto, costruito con l’abilità tipica dei mastri muratori capresi. Essi sono unici, hanno estro e gusto e non hanno bisogno di alcuna progettazione. Con un istinto innato, a mano a mano che la costruzione progredisce, t’inventano un arco qua, una piccola scalinata lì; ti aprono una nicchia per ospitare un vaso o un’anfora, ti creano deliziose piccole terrazze che verranno ricoperte da una vite o da una buganvillea. Danno movimento, grazia, ed anche il più semplice manufatto alla fine ha quel tocco di eleganza che l’abbellisce.
Le stradine pullulanti nel secolo scorso di negozietti di artigianato locale e soprattutto di calzolai esperti nel confezionare i famosi sandali capresi, fatti a mano e tanto richiesti dalle personalità di tutto il mondo, scomparsi gli artigiani, son diventate oggi studi di pittori, di architetti, di boutique immerse in un’idilliaca pace, eleganti nella loro semplicità. Esse si diramano in tutte le direzioni, s’insinuano voluttuosamente nel centro abitato, spesso finendo in uno slargo, una graziosa piazzetta o si affacciano senza uscita sulla campagna degradante a terrazze verso il mare. Tutto è pace, tutto è silenzio. Gi abitanti, gentilissimi, sempre pronti a dare informazioni al turista, sono tutti intenti alle loro mansioni giornaliere. Si respira un’atmosfera ben lontana dalla chiassosa folla della piazzetta di Capri e delle strade limitrofe. Invitano il turista a percorrerle, una ad una, a curiosare, a fotografare, a “sentirti di casa” per l’affabilità degli abitanti. Qui una “casetta ciamurra” che ostenta orgogliosamente il suo nome cafone su una targa di maiolica; lì un’altra dall’ elegante facciata, abbellita da una grande macina di pietra, ricordo di estenuanti fatiche di poveri asinelli bendati costretti a farla girare. “La macina “ si chiama ed è, come tutte le casette del rione, sotto la protezione del santo patrono di Anacapri, Sant’Antonio, che campeggia in maioliche di tutte le forme sulle facciate.
Nella scenografica piazza principale a gradoni, Le boffe, due svettanti palme, purtroppo alquanto spelacchiate, danno ombra con le buganvillee che ne ricoprono il tronco ai circolari sedili alla cui frescura trova riposo qualche vecchietto o qualche turista stanco. Dei grandi pini marittimi, le cui radici affondano non si sa dove in quel calcare, curvando i loro tronchi l’uno verso l’altro, quasi a toccarsi con le chiome, fanno da quinte alla scenografia della piazza. Civettuole scalinatelle di pochi gradini salgono e scendono in piccoli cortili; terrazze protette da pagliarelle e rampicanti illeggiadriscono le deliziose viuzze tutte storte e sbilenche Si rimane ammaliati da tanta pace e candore.
Lo stesso candore che ammanta i muri di un altro caratteristico rione di Anacapri: Caprile. Le sue stradine sono tutte un saliscendi di ampi gradoni ripidi, che non invogliano certamente il turista a percorrerle, ma lì, nei secoli scorsi, era la vera Anacapri contadina, fatta di stalle di vacche e di capre, di contadini con la zappa e la forca in spalla, di moderne canefore, allegre contadinelle reggenti in bilico sul capo le ceste di fumante concime stallatico. Si diramano dalla piccola Piazza Caprile, uno slargo appena, giù, giù per quelle rocce arse dal sole fra le bianche casette tutte infiorate e sprizzanti allegria come fosse un’eterna settembrata: un bianco presepe che ricopre tutto il costone addormentato nel sole e nella pace fino all’ultimo raggio solare.
L’Anacapri moderna è sinonimo di maestosi alberghi, di lussuose ville dai grandi parchi chiusi agli occhi dei curiosi, di bellissime piazzette ognuna con la sua caratteristica, che ogni tanto interrompono la strada principale, la graziosa e sinuosa via De Tommasi, che percorre in lungo tutto il centro abitato, da pochi decenni ristrutturata da un’oculata amministrazione. Eleganti caffè all’aperto, straripanti boutique con le ultime novità della moda caprese, negozi di artigianato locale di ceramiche artistiche, di sandali ( i famosi sandali fatti a mano in poche ore), di profumi ricavati dai fiori dell’isola, di liquori, di souvenir e fiori e piante dovunque ne rendono il percorso delizioso.
Anacapri vuol dire cultura. La pace di questi luoghi ha da sempre attratto intellettuali, poeti e scrittori di fama e, in questi ultimi anni, vip dello spettacolo. Tantissime sono le manifestazioni, i concerti, gli spettacoli che si susseguono nelle lunga estate anacaprese, che va da maggio a tutto ottobre, senza menzionare la più celebre: la famosa Settembrata, ideata negli anni Venti da personaggi come Marinetti, Libero Bovio ed Edwin Cerio per salutare l’estate e festeggiare il settembre e le molte vendemmie. D’inverno poi, si assapora maggiormente la gioia delle sue incantevoli passeggiate alla Migliara, al Faro, alla Grotta Azzurra, al Solaro, alla passeggiata archeologica di Damecuta o, senza allontanarsi troppo, si può ammirare l’eleganza delle boutique del viale Axel Munthe e affacciarsi sul paradiso della Porta della Differenza, l’antica porta che, fino al 1877 dava accesso ad Anacapri e il nome all’antico rione.
A questa porta termina la celeberrima Scala Fenicia,( o meglio, greca): una rampa di 881 gradini tagliati nella roccia, fino al secolo scorso l’unico collegamento tra la marina e il comune collinare dell’isola. Dopo i sostanziali restauri, oggi la scala è percorribile e rappresenta un’occasione da non perdere per gli appassionati di trekking. Verso la metà dell’Ottocento ha fatto da sfondo a semplici scene di vita isolana, immortalate da grandi pittori le cui tele sono oggi nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo: graziose ragazze, portatrici di acqua o di vino, nei loro tipici costumi in artistica posa sui gradini di pietra, reggenti in bilico sul capo anfore di creta; donne in costume, moderne canefore con i loro cesti colmi di derrate alimentari, asinelli, caprette, galline razzolanti in un cortile. Semplici scene di vita isolana rievocanti un senso di arcaica pace, di serenità, pur nella fatica quotidiana. Sono stati questi artisti che con i loro capolavori hanno fatto conoscere la magia dell’isola al mondo intero: paesaggi di sogno e un mondo a parte rimasto unico ancor oggi.
Anacapri vuol dire, ovviamente, Villa San Michele, fatta costruire a partire dal 1896 dal medico e scrittore svedese Axel Munthe. Ibrida nel suo stile architettonico, è arricchita da reperti archeologici ritrovati in zona. Ben assemblati al resto dell’architettura, fanno sì che la villa emani un fascino tutto suo . Quello che la rende ancor più preziosa ed elegante è la sua mobilia, acquistata dal dottore nel corso degli anni, che ci dà uno spaccato del gusto del tempo in materia di arredamento.
Malgrado le molte critiche per le sue appropriazioni a buon mercato e alle spoliazioni di reperti delle ville imperiali, allo svedese dottore va il merito di aver fatto conoscere al mondo quel paradiso che è la Capri di sopra, fino ad allora sconosciuta e la sua popolazione semplice e fuori del tempo. “La storia di San Michele”, il grande romanzo edito solo in Inghilterra nel 1928 e tradotto in tedesco nel 1931 dall’assistente e segretaria del dottore, baronessa Gudrum von Schwerin, riscosse un enorme successo, al punto tale che ne furono vendute in breve tempo in tutto il mondo venti milioni di copie.
Dal curatissimo parco della Villa San Michele, olezzante del profumo delle sue splendide rose, si sale in un suggestivo percorso, ai ruderi del castello Barbarossa, situato su uno dei picchi minori del Monte Solaro, a 412 m. sul livello del mare. Il castello, costruito fra il X e il XII secolo, a difesa del territorio dalle invasioni, è in pietra calcarea e circondato da torri di avvistamento. Della fortezza restano oggi la cinta muraria e le torri, oltre a una piccola cappella con un campanile a vela.
Il complesso prende il nome dal feroce pirata algerino Khair-ad-Din, soprannominato Barbarossa, comandante la flotta turca dal 1533 al 1546, opposta a Carlo V di Spagna e ad altri principi cristiani. Nel 1534 egli devastò le coste tirreniche dell’Italia e della Tunisia ma venne messo in fuga dalle coste spagnole e non riuscì a piegare la resistenza di Corfù, allora possedimento veneto. Per le sue imprese venne coperto di onori e fatto segno della stima dei popoli. Ancor oggi viene esaltato dai turchi come indomito e sagace guerriero per aver portato la marina ottomana ad un livello superiore a quello cristiano.
Nel 1536 il pirata espugnò e bruciò il castello del quale restano oggi la cinta muraria di fortificazione delimitata da due torri costruite sul lato rivolto verso il paese che più facilmente veniva attaccato. Il lato rivolto verso l’isola aveva come difesa lo strapiombo sottostante. Le torri, con il loro stile architettonico diverso, ora svevo (a pianta rettangolare), ora angioino (a pianta cilindrica) , ci rimandano a differenti epoche storiche. Una piccola cappella con copertura a volta, due piccoli vani , una cisterna e un piccolo campanile a vela completano il tutto.
Nel 1904 Axel Munthe comprò il monte e vi creò una stazione ornitologica per l’osservazione delle migliaia di uccelli migratori che lì si riposavano dopo il lungo volo attraverso il Mediterraneo prima di proseguire verso il lontano Nord, dove avrebbero nidificato. Il suo scopo primario, però, era la salvaguardia delle quaglie che due volte all’anno, in primavera e in autunno, passavano nel cielo di Capri e purtroppo finivano nelle reti, nelle “parate”stese su tutto il pendio del monte Barbarossa e da un picco all’altro dell’isola. Era diventato un commercio lucroso. La sera i poveri uccelli venivano imballati a migliaia in piccole scatole di legno senza cibo e senz’acqua e spediti col piroscafo a Marsiglia per deliziare le tavole degli eleganti ristoranti parigini. Il vescovado di Capri era interamente finanziato dalla vendita degli uccelli. “Il vescovo delle quaglie”, chiamavano a Roma l’alto prelato.
Abbiamo avuto la fortuna, mio marito ed io, di visitare la stazione negli anni Sessanta così coma era rimasta dopo la morte del dottore grazie alla gentilezza dell’allora console svedese. Il Castello Barbarossa fa parte del complesso di Villa San Michele ed è proprietà del Consolato Svedese dell’isola, (Capri ha consolato autonomo per la preservazione delle molte proprietà acquistate dal dottor Munthe), che vi ha impiantato, nel 1956, una moderna stazione ornitologica per l’osservazione e l’inanellamento degli uccelli migratori, alla quale lavorano anche studiosi italiani.
Immerso oggi, in un’oasi del WWF, che vi organizza periodicamente visite guidate e dominata dalla macchia mediterranea che, tra maggio e giugno, accoglie i visitatori con dorate distese di ginestre e tappeti di orchidee selvatiche di tutte le tonalità del rosa, è una delle passeggiate naturalistiche più belle da fare.