Fonte: L’Osservatore Romano del 21 gennaio 2022
di Felice Accrocca
Nella storia della Repubblica italiana restano ancora molti nodi da sciogliere. Restano anche atti di riparazione da compiere, giacché finora si è scritto più sui delinquenti che sugli uomini onesti, più dei pochi che hanno ingarbugliato le cose che non dei molti i quali nel silenzio hanno contribuito a sbrogliarle. Giuseppe Salvia fu uno di questi: a 38 anni pagò con la vita la propria determinazione nel voler render più giusta e umana la vita all’interno del carcere di Poggioreale ed è stato profondamente ingiusto che su di lui, sulla sua storia, sulla sua barbara uccisione sia per troppo tempo calato il silenzio.
Un silenzio assordante, rotto ora finalmente da Antonio Mattone: riporta infatti alla luce una figura e una vicenda colpevolmente dimenticate in un ampio volume, che ha la prefazione di Andrea Riccardi e che si intitola La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia (Napoli, Guida Editori, 2021, pagine 352, euro 20). Mattone ha lavorato sodo e a lungo per mettere insieme, pezzo dopo pezzo, un quadro documentato, e perciò credibile, della vita di Giuseppe Salvia e del suo impegno come vicedirettore di un carcere che era all’epoca sovraffollato fino all’inverosimile, nel quale i detenuti – grazie anche a tante connivenze – nascondevano un vero e proprio arsenale, in cui si consumarono vere e proprie faide per nulla differenti da quelle che, negli stessi anni, insanguinavano le strade di Napoli e provincia. Un carcere dominato da un “sovrano”, la cui cella restava aperta e nella quale riceveva visite offrendo tè, pasticcini e il caffè fatto con la ricetta che «a Cicirinnella aveva insegnato mammà», come cantava – con un’inquietante aderenza al vero – Fabrizio De André.
Tra gli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso era difatti dal carcere di Poggioreale che Raffaele Cutolo guidava la nuova camorra organizzata. Fu proprio con quel “sovrano” che Salvia finì per doversi confrontare senza le adeguate coperture e lo fece con dignità, non piegando mai la testa al potente di turno, nella convinzione che la giustizia è una virtù che non può venir meno e tanto più in un luogo in cui se ne deve insegnare il rispetto. Proprio perché convinto di ciò, all’interno di quelle mura esigeva il rispetto della legge da parte di tutti, anche da parte del boss che mirava invece a ribadire il suo potere con la deroga sfacciata alle regole di cui di fatto godeva. I due erano quindi destinati a scontrarsi, dal momento che Cutolo non poteva sottostare alle regole, poiché ciò gli avrebbe fatto perdere credibilità, mentre Salvia, in forza del suo codice morale, non voleva né poteva permettersi di piegare la testa facendo finta (com’erano in tanti a fare) di non vedere.
Nel crescere della tensione si giunse così a quel 6 novembre 1980, quando Salvia insistette perché Cutolo sottostasse (come tutti!) a una perquisizione davanti a detenuti e agenti e questi reagì schiaffeggiando Salvia, gesto che finì per accrescerne ulteriormente il potere all’interno del carcere. Salvia si decise allora a chiedere il trasferimento per motivi di sicurezza, ma quel provvedimento non gli fu concesso, o almeno non gli fu concesso in tempo. Pochi mesi dopo un simile schiaffo, il 14 aprile 1981, Martedì Santo, sulla tangenziale di Napoli Mario Incarnato e Carmine Argentano eseguirono la condanna comminata da Cutolo uccidendo Salvia che viaggiava all’interno di una Fiat Ritmo bianca.
Antonio Mattone, da molti anni, ormai, volontario nel penitenziario di Poggioreale (che nel 2013 è stato intitolato proprio a Giuseppe Salvia), ha lavorato sodo per cinque lunghi anni, riaprendo vecchi e impolverati faldoni nell’archivio del carcere, ascoltando personalmente la moglie e i figli di Salvia e coloro che con lui lavoravano, perfino il boss e chi quella condanna eseguì, per fare luce sulla vicenda, sulla quale calò ben presto il silenzio, anche perché pochi mesi dopo esponenti dello Stato finirono per compromettersi con interlocutori a dir poco ingombranti per ottenere che le Brigate Rosse rilasciassero il consigliere regionale campano Ciro Cirillo, operazione mediata proprio da Raffaele Cutolo.
Mattone è riuscito a incontrare Mario Incarnato, il quale alla fine di un lungo colloquio gli ha detto: «Salvia non era un corrotto e per questo è stato ucciso. Cutolo lo fece ammazzare per avere la supremazia all’interno del carcere di Poggioreale. Gli altri che sono stati assolti erano colpevoli; “Popone” [Carmine Argentano] non l’ho più visto, anche con lui ho fatto tanti reati. Un parente mi accusò di avergli fatto fare tanti anni di galera, ma quel giorno lui stava con me».
Per tanti anni Cutolo non ha voluto ammettere di aver impartito quell’ordine, finché non ha incontrato Antonio Mattone nel supercarcere di Parma, il 22 luglio 2019: «Sì, l’ho fatto io l’omicidio di Salvia. Lui si accaniva contro di me, non so perché, non lo faceva con gli altri, ma mi faceva sempre perquisire». Nell’occasione, Mattone s’è trovato davanti un vecchio ormai cadente, artritico, destinato a una fine ingloriosa, ed ha ragione quando osserva che far vedere ai giovani come Cutolo era ridotto avrebbe potuto «sminuire quella carica attrattiva che ancora mantiene». L’averne voluto del tutto oscurare l’immagine, al contrario, rischia di fissarla nella memoria come apparve a suo tempo all’opinione pubblica – un uomo giovane, sicuro di sé, irridente – alimentandone così il mito: il don Raffaele di Fabrizio De André, morto il 17 febbraio 2021 e quello stesso giorno comparso davanti a un altro tribunale nel quale non ha potuto più mentire.
Seme di Vangelo è stata invece la testimonianza di Salvia, fiorita in tanti modi. Ne indico uno, tra i più significativi: la moglie e uno dei figli partecipano al pranzo di Natale che la Comunità di Sant’Egidio organizza ogni anno in quel carcere che costò la vita al proprio congiunto. Nato a Capri il 23 gennaio 1943, oggi Giuseppe Salvia avrebbe compiuto ottant’anni: la sua memoria è in benedizione.