Fonte: Il Mattino
di Alessandra Farro
Un paesino della Calabria negli anni Cinquanta, Aspromonte, ad Africo, che, sembra bloccato nel tempo: non ci sono strade a collegarlo al resto, una donna muore di parto perché il dottore non riesce ad arrivare a tempo a causa della mancanza di collegamenti, gli abitanti del paese, capitanati da una professoressa del Nord, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, David di Donatello come miglior attrice per «La pazza gioia», e dal poeta del paese, Marcello Fonte, Palma d’ oro a Cannes come miglior attore per «Dogman», decidono di costruirsi da sé la strada che diventa metafora di una popolazione in cerca di riscatto dalla propria condizione. Questa è la nuova storia che Mimmo Calopresti racconta in «Aspromonte, la terra degli ultimi». Il film, con Sergio Rubini, Francesco Colella e Marco Leonardi, nelle sale italiane dal 17 ottobre e in quelle australiane già a partire da settembre, distribuito da International film e Rai Cinema, prodotto e fortemente voluto da Fulvio e Federica Lucisano, di origini calabresi, è stato presentato in anteprima nazionale al Taormina Film Festival in luglio.
Il regista, reduce dalla sua esperienza a San Francisco dove ha ricevuto l’ International literary award, riconoscimento toccato anche a Umberto Eco, Josè Saramago e Giancarlo Giannini, ne racconterà i retroscena a «Il salotto della sfinge» ad Anacapri il primo settembre in villa San Michele alle 20. La rassegna, alla sua prima edizione, da oggi all’ 1 settembre sull’ isola, promette salotti, culturali ma non solo, con Renato Carpentieri, Tosca D’ Aquino, Alessio Cremonini, Cinzia Leone e Cesare Cunaccia.
Com’ è nata l’ esigenza di raccontare un paesino della Calabria negli anni Cinquanta, Calopresti?
«L’ Aspromonte è una delle terre più antiche del mondo, dove tutto nasce e comincia. Per me lì c’ è una condizione di vita particolare. C’ è un’ energia diversa, data dal bisogno delle persone di raggiungere la civiltà. È un luogo in cui l’ idea di avere una strada e la possibilità di muoversi, di avere delle scuole funzionanti è una cosa eccezionale. Si muovono per i loro diritti, quando dovrebbero già averli. La storia è vera, il paese aveva veramente bisogno di tutto. Sono partito da lì, da questa storia raccontata nel libro Via dall’ Aspromonte di Pietro Criaco (Rubbettino). Mi interessava, di questa memoria, l’ idea di una terra che si chiama degli ultimi, così come ultimi sono i suoi abitanti. È ambientata negli anni Cinquanta perché quello è il suo tempo di narrazione, ma non differisce dalla realtà odierna».
Quanto tempo c’ è voluto per girarlo e per ricreare il set?
«Girarlo è stata la parte più facile, ci sono volute sei settimane.
La preparazione è stata più impegnativa. Abbiamo ricostruito un paese intero, il vero Aspromonte ormai non esiste più, l’ abbiamo ricreato a Ferruzzano, poco distante da dove si trovava il vero protagonista e, posso assicurare, le condizioni in cui verte Ferruzzano oggi non sono molto differenti. È complicato perfino arrivarci: non ci sono abbastanza strade. È stato un lavoro difficile, pesante fisicamente oltre che mentalmente, ma ha restituito la verità che volevo raccontare. C’ è anche un elemento che è rimasto fedele alla storia: la scena finale è stata girata in una scuola che era stata edificata sotto proposta di Gianotti Bianco, un intellettuale che agli inizi del Novecento dava una mano alle persone del posto credendo che la cultura potesse cambiare le cose».
Che cosa si aspetta dall’ uscita di questo film?
«Si tratta di un film popolare, mi aspetto che le persone vadano a vederlo perché la storia riguarda il nostro paese, il nostro passato, ma anche il nostro presente. Ci permette di capire qualcosa rispetto al caos che è intorno a noi. Ci sono più risposte di quanto pensiamo: l’ idea di cercare di avere dei diritti e di assistere alla possibilità di essere partecipi e non di subire la vita, di rimanere attivi e capaci, valeva negli anni Cinquanta, ma forse vale anche oggi. Quando penso agli ultimi, non penso agli sfigati, ma a quelli che hanno bisogno di esprimersi, che hanno dei valori e cose importanti da dire, ma per cui non è facile dirle».
Questa volta si tratta di un film di finzione piuttosto che di un documentario: quale crede sia la forma che le è più vicina?
«Amo il cinema come forma di comunicazione e quando faccio un documentario per me equivale a fare un film di finzione, anche se per la fiction bisogna mettere insieme tante cose, dall’ ambientazione alle musiche al cast, e mi permette di diventare molto più preciso e scendere più affondo nella realtà. Il documentario non mi consente di entrare nella vita delle persone, dal punto di vista psicologico. Piuttosto che far raccontare una vicenda a chi è rimasto in vita oggi, è più efficace farla rivivere attraverso gli attori; la fiction, in effetti, può emozionare di più del documentario».