di Luigi Lembo
Nel parlare delle donne, del loro ruolo nella società, nel lavoro, nell’istruzione, nei circoli dell’establishment, si può cadere spesso in luoghi comuni, nella retorica auto-celebrativa del sesso femminile, evidenziando una considerazione spesso di facciata, rispetto alla questione reale della disparità di genere. In un contesto ristretto poi come quello caprese il problema si è posto nel tempo in modo tale da considerare la nostra non certo un isola felice. Emblematico è un modo di dire locale, fortunatamente caduto in disuso, che con una cinica battuta considerava una vera e propria iattura la nascita di una bambina: “ha avuto ‘a mala nuttata e ‘a figlia femmena!” che tradotto voleva dire: un peso per la famiglia. L’ interessante libro “Capri nel 1800 – popolazione e toponomastica” racconta proprio di questa disparità e di come invece la donna caprese assumesse già da giovanissima atteggiamenti responsabili. Si racconta di come le donne oltre che occuparsi della pulizia della casa e dell’approvvigionamento idrico, provvedevano anche all’essenziale supporto all’attività agricola che costituiva tra il 18° e 19° secolo la principale attività economica del territorio insieme alla pesca. Le donne provvedevano alla raccolta del fieno, alla mungitura delle vacche e alla rimozione delle urine e del letame utilizzato come concime. Molte di loro andavano a lavare i panni a domicilio, soprattutto nei primi alberghi e locande del territorio. Molte facevano le ciucciare e alcune anche le spazzine. Molte donne erano anche adibite al trasporto di carichi pesanti per la costruzione come la preziosa pozzolana estratta nella piana di Matermania. A tale esigenza furono all’epoca costruiti da un benemerito assessore comunale, lungo le strade isolane, dei poggi in muratura per riporre i pesanti carichi; ma questo non per dar loro il beneficio di un momento di sosta liberando le spalle indolenzite dal peso dei gravosi fardelli, ma solamente perché si voleva evitare una mal tollerata abitudine: quella di non indossare le mutande, in quanto,non trovando un appoggio quando avevano impellenti bisogni corporali, le donne erano costrette loro malgrado a sopperire a tale esigenza in piedi grazie a tale escamotage, pur protette da lunghe gonne che arrivavano fino alle caviglie. Nonostante il dilagare dell’analfabetismo dell’epoca, si preferiva poi la presenza di maestrine che davano sommarie lezioni e che i contadini ripagavano con prodotti della terra. Ma la vera prerogativa femminile da cui non si poteva prescindere era legata alla maternità, considerata come un dono. Quella di non avere i figli infatti era considerata una menomazione tale da segnare la donna per tutta la vita. Spartane, lavoravano sodo anche prossime al parto che avveniva in casa con la sola assistenza di una mammana, allattando poi i figli dal proprio seno e cibandosi di zuppe acquose che favorivano la produzione di latte. E quando questo non era possibile intervenivano delle figure che a Capri avevano un nome specifico: si chiamavano “le mamme di pietto”. Queste donne venivano coinvolte allorquando le madri di nascituri avevano problemi di allattamento. Si sostituivano ad esse e, con generosità, allattavano i figli altrui fino a quando fosse necessario, avendo il rispetto e la gratitudine dei beneficiati considerandola quasi come una seconda madre. Va infine ricordato come la giudiziosità di queste donne fosse indotta già da bambina con l’imprescindibile esigenza di pensare alla cosiddetta “cascia” ossia al contenitore di coperte, lenzuola, federe e quant’altro in previsione del sospirato matrimonio che, nel costume del tempo, doveva essere solido e duraturo.