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Vincenzo Sinapi sulle tracce di otto preziosissimi “prigionieri di guerra”

Intervista al redattore capo dell’Ansa che con Tommaso Romanin ha scritto Bottino di guerra-Il giallo dei quadri razziati dai nazisti e deportati a Belgrado

di Redazione
25 Maggio 2024
in News
Da Spoleto al fronte Vincenzo Sinapi è spoletino Ha sessantuno anni, dodici dei quali trascorsi come inviato di guerra per l’agenzia Ansa Attualmente ricopre l’incarico di redattore capo della redazione di Napoli sempre dell’Ansa

Da Spoleto al fronte Vincenzo Sinapi è spoletino Ha sessantuno anni, dodici dei quali trascorsi come inviato di guerra per l’agenzia Ansa Attualmente ricopre l’incarico di redattore capo della redazione di Napoli sempre dell’Ansa

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Seggiovia Monte Solaro

Fonte: Corrieredell’Umbria

di Riccardo Regi

PERUGIA

Spoletino, 61 anni, laurea in Giurisprudenza, giornalista professionista dal 1990, Vincenzo Sinapi è attualmente redattore capo all’Ansa, responsabile della redazione di Napoli. Inviato nei teatri di guerra, impegnato in inchieste giudiziarie, ha pubblicato libri su argomenti nei quali si è imbattuto durante il corso della sua brillantissima carriera: nel 2007 con Carlo Petrilli ha scritto ‘Nassiriya, la vera storia’ Lindau editore; per Mursia ‘Ufo. I dossier italiani’ nel 2014; ‘Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani’ nel 2021 e, quest’anno, col collega dell’Ansa di Bologna Tommaso Romanin, ‘Bottino di guerra. Il giallo dei quadri razziati dai nazisti e deportati a Belgrado’.

Di questo e altro, come nostra consuetudine, parliamo in questa intervista. – Come nasce il suo ultimo libro? Un po’ come quelli precedenti, molto legati al lavoro di cronaca. Come nel caso di Domenikon, alla base c’è un’inchiesta di una procura; in questo caso di Bologna. – Inchiesta sul trafugamento di opere d’arte? Esatto. I carabinieri della patrimonio culturale si erano imbattuti in un quadro che era arrivato in mostra in Italia. Si sono accorti, dopo che era già tornato nel Paese di provenienza, cioè la Serbia, che era una delle opere d’arte ricercate dal dopoguerra perché illegittimamente esportata dall’Italia. I magistrati di Bologna hanno ricostruito tutta la storia che è quella che noi raccontiamo nel libro, fino a chiedere la confisca di questo e di altri sette quadri che, secondo loro, avevano fatto lo stesso percorso illegale. – Dove sono queste opere? Nel Museo nazionale di Belgrado in cui sono andato e verificato che quelli che chiamo “gli otto prigionieri di guerra” costituiscono la parte più importante della sezione italiana del museo. – Pare di capire che questi otto pregiati ‘prigionieri di guerra’ in cornice resteranno in Serbia…

La Procura ha chiesto la confisca alle autorità serbe che, però, hanno sempre risposto picche. Di fatto l’inchiesta è morta, la nostra speranza è che il libro possa riaccendere l’iniziativa giudiziaria perché noi abbiamo scoperto che, in realtà, i ‘prigionieri di guerra’ italiani detenuti a Belgrado non sono solo quelli individuati dai carabinieri ma, complessivamente, 21. Quindi ci potrebbero essere degli spunti investigativi ulteriori che il nostro libro vuole in qualche modo stimolare. – Nel libro c’è una parte dedicata ai “monuments men”: come si inseriscono nel vostro libro-inchiesta? La premessa è che in genera le hanno fatto un lavoro ecomiabile. E’ merito loro se tantissime opere dei Paesi non alleati, soprattutto sottratte agli ebrei, sono state recuperate e restituite ai legittimi proprietari. Nel caso dell’Italia, invece, Paese alleato, i nazisti le opere le acquistavano tanto che i nostri antiquari dell’epoca hanno fatto fior di soldi. Tornando alla nostra inchiesta, abbiamo appurato che i monuments men sono stati di fatto truffati. – Truffati in che senso? Tantissimi reperti trafugati o acquistati dai nazisti sono stati riuniti dagli alleati in punti di raccolta che si chiamavano central collecting point. Uno di questi, il più importante, era a Monaco di Baviera.

Qui c’erano migliaia di reperti e il deposito era gestito dai monuments men ai quali si rivolgevano gli emissari dei vari Stati con delle liste in cui descrivevano i beni trafugati. I monuments men controllavano la documentazione e poi provvedevano alla restituzione. Peccato che i quadri italiani, cioè gli otto “prigionieri” più quelli che noi pensiamo essere italiani, sono stati consegnati non a un emissario del nostro Paese ma a un truffatore croato, Ante Topic Mimara. Mezza spia e mezzo imbroglione, ha fatto innamorare di sé una funzionaria tedesca del centro di raccolta e dalla quale si è fatto descrivere dettagliatamente i quadri. Poi li ha messi in lista e, in questo modo, ha truffato i monuments man dicendo Toro che quelle erano opere appartenenti alla Serbia. Mimara ha fatto lo stesso con altre opere di altri Paesi che arricchiscono il museo di Belgrado. – Quante opere è riuscito a prendersi Mimara? In tutto 166 oggetti.

– E i monuments men non se ne sono accorti? Sì, quasi subito. Avevano intuito che c’era qualcosa che non andava perché arrivavano le proteste dai vari Stati. Hanno provato a chiedere la restituzione alla Serbia che ha risposto semplicemente di no. Va detto che, in effetti, quello era il periodo dell’immediato dopoguerra e c’era l’esigenza di non alterare i rapporti tra i vari Paesi. Si chiama ragion di Stato, soprattutto in relazione a quelli che erano i delicati equilibri nei Balcani. Così i monuments men, dopo qualche anno, hanno smesso di inoltrare le richieste di restituzione e tutto è finito così. Come detto, la nostra speranza è che anche il libro possa contribuire a riaprire questo capitolo. -Nassiriya, Domenikon, Ufo e Bottino di guerra: qual è il filo rosso che unisce questi suoi libri? Il mio lavoro. Per tutti e quattro i libri si tratta di argomenti di cui mi sono occupato. Nassiriya è il primo libro perché allora facevo l’inviato di guerra. – A proposito, per quanto tempo ha fatto l’inviato di guerra? Dodici anni. Dopo aver seguito per tantissime volte le attività dei militari italiani in Iraq, ho pensato di raccontare tutta la missione.

– Gli Ufo? All’epoca avevo rapporti stretti, proprio in quanto inviato di guerra per l’Ansa, con le forze armate e il ministero della Difesa. Potevo contare, voglio dire, su una certa reputazione: noi inviati venivamo considerati seri e quello era un periodo in cui tantissime persone chiedevano all’Aeronautica militare l’accesso a questo loro presunto archivio misterioso sugli oggetti volanti non identificati. Nel momento in cui, per pura curiosità, al capo di Stato maggiore di allora dell’Aeronautica chiesi di poter consultare gli archivi, mi fu consentito di accedere agli atti e di fotocopiare tutto quello che avessi ritenuto utile. Da qui il libro. Invece Domenikon e Bottino di guerra prendono le mosse da inchieste giudiziarie di cui ci siamo occupati: la prima della Procura di Roma, la seconda di Bologna.

– A proposito di giornalisti inviati sul fronte di guerra, che ne pensa della vicenda di Franco Di Mare e della sua malattia? Lui ha operato in tempi antecedenti ai miei e soprattutto sul fronte dei Balcani. Detto che per quanto riguarda le morti per presunta contaminazione d’uranio impoverito ci sono state commissioni parlamentari d’inchiesta e militari che sostengono di essere stati esposti al possibile contagio, resta comunque una questione molto controversa. Conoscevo Di Mare e non era uno che si inventava le cose, era una persona seria e scrupolosa.

Se ha avanzato questa ipotesi doveva avere elementi certi. Altri libri in cantiere? Da dieci anni sono alle prese con la ricostruzione dell’eccidio di Cefalonia, una vicenda controversa con la quale si ha paura di fare i conti e che rientra nel filone delle cose non dette. La differenza sostanziale, per lei, nello scrivere un articolo e un capitolo di un libro? La possibilità di approfondire senza dover a tutti i costi sintetizzare con l’orologio alla mano.

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