fonte: Il Mattino
di Ta-Nehisi Coates
La cultura nera sconfitta quando lui si fece bianco.
Pubblichiamo parte del reading che lo scrittore Ta-Nehisi Coates terrà sabato, alle 19 in piazzetta Tragara, a Capri, per la quattordicesima edizione delle «Conversazioni», il festival ideato da Antonio Monda e Davide Azzolini (che si svolge anche a Roma, Napoli e New York) dedicato quest’ anno al tema «Pregiudizio».
Ta-Nehisi Coates
Posso averlo visto solo lì, sul parquet lucido del teatro della mia scuola elementare, perché ero piccolo, allora, avevo solo 7 anni, in città non era ancora arrivata la tv via cavo, e anche se fosse arrivata mio padre ne sarebbe stato diffidente. Sì, dev’ essere stato così, come un tramandarsi di saggezza popolare, perché quando ripenso a quell’ epoca non mi viene in mente Mtv, ma il futile tentativo di stare sveglio per sorbirmi il biancore soporifero dei «Friday night videos» della Nbc, e da noi in quel periodo i videoregistratori non c’ erano, e quindi dev’ essere stato lì, che l’ ho visto: nel teatro accanto alla mensa, dove dopo la dose quotidiana di patate fritte e latte al cioccolato veniva alzato il sipario e i bambini si riversavano sul palco. Io sarò stato lì fra loro, a tentare qualche goffo movimento di break-dance, a mimare con gesti legnosi l’ ondulare del lombrico o del serpente, a roteare spasmodicamente le gambe in aria come un’ elica rotta, e alzando gli occhi avrò visto di fronte a me un altro ragazzino, un po’ più grande, che sorrideva fra sé e sé e si muoveva sul palco alzando prima un tallone e poi l’ altro, slittando all’ indietro, ballando il moonwalk. Mai più vista una cosa così. Impossibile. Ma era il 1982, e Michael Jackson era Dio, e non solo Dio quanto a intenzioni e potenza, benché certo, ci fosse pure quello, ma Dio in quanto grande mistero; Dio per come un bambino ne sentiva parlare, Dio per come viveva nella leggenda e nella tradizione; Dio perché di walkman in giro ce n’ erano ancora pochi, e io ero piccolo e non potevo contare sulla musica che usciva dall’ autoradio, dato che i miei non si spostavano dai programmi culturali della Npr e dai notiziari della Wtop. Perciò mi restavano solo le leggende, storie di imprese incredibili e gesta formidabili: Michael Jackson faceva da paciere negli scontri fra gang; Michael Jackson era il re degli zombie; Michael Jackson batteva un piede a terra e i sassi si illuminavano. Anche il suo abbigliamento mi sembrava del tutto fuori dalla mia portata il giubbotto con le borchie, il guanto luccicante, i pantaloni di pelle paramenti divini intoccabili per me, un bambino mortale che vedeva a stento oltre il sabato successivo, che avrebbe guardato per la prima volta «Motown 25» a trent’ anni passati, che avrebbe posseduto una copia di «Thriller» solo da adulto, quando non credeva più nei miracoli e capiva, nel profondo del cuore, che se il Dio dei neri non era morto, di sicuro stava morendo.
E moriva da sempre: moriva dalla voglia di essere bianco. Così diceva mia madre: che gli si leggeva la morte in faccia, il consumarsi della pelle, l’ assottigliarsi dei lineamenti, tutti segni che stava svanendo, stava essiccandosi per trasformarsi in qualcosa di bianco, cancellandosi, così da farci dimenticare che un tempo era stato di una bellezza africana e di un bruno africano, da farci dimenticare il naso da faraone, i grandi occhi, il sorriso abbagliante, e Michael Jackson non era che il limite estremo di quella che sembrava, negli anni post-disco music, una tendenza. Perché quando ripenso a quell’ epoca, penso agli uomini neri che mi sorridevano dalle copertine degli album con i ricciolini stile Jheri e le lenti a contatto azzurre, e alle donne nere che sembravano, per qualche direttiva mistica, essere tutte del colore avana della carta di imballaggio. Sì, forse Michael Jackson moriva dalla voglia di essere bianco, ma non stava morendo da solo.
C’ eravamo anche tutti noialtri, nati, come lui, dal fango di questo paese, nati nei bassifondi. Sapevamo di essere legati a lui, sapevamo che la sua distruzione fisica era anche la nostra, perché se il Dio nero, che faceva ballare gli zombie, che poneva fine a grandi guerre, che trasformava le pietre in oggetti di luce, se quel Dio non riusciva a essere bello ai suoi stessi occhi, che speranza potevamo mai avere noi mortali, bambini di sfuggire a ciò che ci avevano insegnato, di sfuggire a ciò che dicevano della nostra bocca, dei nostri capelli, della nostra pelle, che speranza potevamo mai avere di uscire dal fango? E lui si distruggeva. Succedeva proprio sotto i nostri occhi. Dio si distruggeva, e noi non potevamo fermarlo, anche se lo amavamo, non potevamo fermarlo, perché chi può davvero fermare un dio nero che muore dalla voglia di essere bianco?