Fonte: Giornale di Lecco
LECCO (pia) Da Napoli a Lecco e ritorno. L’ avvocato Roberto Tropenscovino, 66 anni, ha fortissimi legami con la nostra città e il capoluogo campano. «Mio papà era napoletano verace, dei quartieri spagnoli, e in questo modo si giustifica la mia appartenenza a quella terra. Mia mamma era bellanese. Nel dopoguerra mio padre è venuto a Lecco a presidiare il lago con gli americani. Ha visto questa ragazza in bicicletta e se ne è innamorato a prima vista». Dal loro amore sono nati quattro figli, «che è riuscito con grande sforzo a far studiare tutti, lui che aveva solo la seconda elementare. Sono stato molto legato ai miei genitori, che sono morti nel 2016 a cinque giorni di distanza l’ uno dall’ altra, dopo 70 anni di matrimonio».
Partiamo dagli anni dell’ Università…
«Ho studiato alla Statale di Milano e poi ho fatto un approfondimento di criminologia a Napoli e da allora, assecondando un desiderio di mio papà, ho aperto uno studio in Campania, con mio cugino, che è presidente della Camera penale: una vera istituzione».
Va spesso a Napoli?
«Le faccio l’ esempio di questa settimana: lunedì alle 4.30 sono andato in aereo a Napoli, ho fatto udienze e sono tornato alla sera, poi sono tornato giù mercoledì e qui a Lecco venerdì».
Quali sono stati i suoi maestri?
«Quest’ anno festeggio i 40 anni di professione. Esattamente 40 anni fa mi chiamò l’ avvocato Ceppi, che aveva lo studio con l’ avvocato Sergio Zodda («giustiziato» nel suo studio, ndr) e con Franco Necchi, in via Leonardo da Vinci. Erano tre persone diversissime tra di loro ed è proprio così che si impara, prendendo spunto da tutti. Sono nato come civilista, poi dopo una decina d’ anni sono stato travolto da questa passione per il penale e ho aperto un mio studio in piazza Manzoni».
Prima ha avuto successo come «avvocato dei calciatori».
Ci racconta questo periodo della sua professione?
«Per un caso fortuito sono diventato l’ avvocato dei giocatori del grande Milan. Tutto è nato con Roberto Donadoni. Nel 1989 stavo andando a comprare un’ auto a Calco: casualmente c’ era in concessionaria Donadoni, che era appena arrivato dall’ Atalanta.
Lui aspettava una Mercedes, io una 127. Il concessionario ci presentò e lui mi disse: “Fai l’ avvocato, io non ho un buon rapporto con gli avvocati perché dovevo recuperare 10 milioni da un tizio che mi ha truffato e non sono riuscito”. Io risposi che se voleva ci provavo io. Mi mandò la documentazione con l’ autista da Milanello. Guardai e capii subito che non c’ era nulla da fare. A quel punto potevo fare due cose: restituire il malloppo dicendo che non potevo fare nulla o risolvergli il problema. Decisi di ridargli io i soldi, facendo un prestito. Lo chiamai dopo un mese e gli dissi che avevo risolto tutto, restituendo il faldone con l’ assegno. Il giorno dopo mi mandò a prendere e mi portò a Milanello: mi si aprì un mondo. Ho difeso Franco Baresi e sua moglie, Filippo Galli, Sebastiano Rossi, Eranio, Galante, Loria, Albertini… Tutti italiani, mai stranieri. Intervenivo in questioni legate ai contratti, oppure vicissitudini di carattere ci vilistico legate agli immobili e agli sponsor. Poi negli anni mi sono staccato dai calciatori. Con Donadoni ho avuto anche una discussione, perché quando ho cominciato a seguire la Strage di Erba il mio nome, e quindi il suo, venivano legati ad Azouz e lui non lo gradiva. Per me invece era solo lavoro».
La nomea che lei ha nell’ ambiente è quella di un avvocato con il “pelo sullo stomaco”. Lo ritiene un complimento?
«Credo che la determinazione sia uno dei miei pregi. Nel mio campo ci sono tantissimi avvocati bravi, anche più di me, poi magari fa la differenza l’ aspetto caratteriale. Inoltre ritengo indispensabile l’ aggiornamento professionale, seguo molti corsi e soprattutto mi piace confrontarmi con i miei colleghi».
Il vero boom alla carriera è arrivato con il passaggio al penale?
«Ho seguito casi locali e di rilevanza nazionale. Il primo è stato quello legato all’ uccisione del benzinaio Maver. Poi il filone Cappio, che ha arginato la ‘Ndrangheta locale, il caso Rizzo (primo femminicidio nel nostro territorio), il caso di Chiara Bariffi».
Quindi è arrivata la Strage di Erba…
«Dal punto di vista giuridico e mediatico è stato il più clamoroso. Ho partecipato più volte a “Matrix” e “Porta a porta”, perché sono convinto che sia sempre meglio che a parlare sia l’ avvocato. Ci ha tenuto occupati per sei anni: non abbiamo avuto una lira da Azouz Marzouk, ma abbiamo ottenuto ampia visibilità».
Cosa pensa di quello che stanno facendo le Iene per riabilitare Rosa e Olindo? Mai avuto dubbi?
«Penso che la televisione vive del contrario della realtà. Abbiamo studiato decine di migliaia di documenti, atti, verbali, interrogatori, ho visto anche le perizie di Picozzi: è uno dei casi più inequivocabili che ci siano mai stati.
Ma è il metterlo in discussione che fa notizia, non confermare la sentenza. Non è una trasmissione di due ore che può ribaltare il parere di 26 giudici che non hanno avuto un minimo dubbio».
Qualche altro caso eclatante?
«Beh, il processo Ruby nasce da una denuncia mia. Tra i miei clienti c’ è anche Lele Mora. Un giorno mi chiamò e mi disse che c’ era una ragazza che aveva subito un furto dalla sua coinquilina a Milano. Lei faceva la ragazza immagine e abitava con un’ altra giovane, di cui non conosceva nome e cognome, ma solo il soprannome, Ruby Rubacuori. Ho fatto denuncia contro ignoti, indicando solo il soprannome. Un giorno casualmente la cliente incontrò di nuovo Ruby e chiamò la polizia. Venne portata in Questura e da lì cominciò tutto».
Mai più tornato al calcio?
«Ho seguito anche Calciopoli per Brambati, Del Neri e Donadoni. Poi il Calcio Scommesse del 2014, quando difesi Daniele Padelli e Fabio Galante. In città il fallimento del Calcio Lecco».
Adesso cosa sta facendo?
«Qualche anno fa venni coinvolto da Claudio Loiodice nella Fondazione Caponnetto, che monitora il livello delle mafie su tutto il territorio nazionale. Questa associazione mi porta in giro per l’ Italia a fare congressi, con magistrati e giuristi di alto livello. Un anno e mezzo fa ho anche ricevuto un premio da questa Fondazione “per la tenacia nella lotta alle mafie”».
Passiamo ora alla sua vita privata.
«Devo molto alla mia famiglia d’ origine, ma anche a quella che ho costruito. Mia figlia Cinzia ha due bambini e mi piace molto fare il nonno di Federico, che ha 3 anni, e Matteo, che ha pochi mesi. Mia moglie Daniela, invece, ha insegnato per 40 anni al Ba doni e 15 anni fa ha aperto una Galleria d’ arte qui a Lecco».
Riesce a coltivare qualche hobby?
«Amo il calcio, sono tifoso del Napoli. La mia vera passione però è Capri, dove ho anche moltissimi clienti e una casa. Poi mi piace il trekking, sulle nostre montagne, e anche monitorare la crescita della nostra città, non solo attraverso la vita amministrativa. Grazie a mia moglie, poi, mi sono anche appassionato di arte. Tra le mie passioni metterei anche il commissario Montalbano: ho fatto un tour dei luoghi in Sicilia che hanno caratterizzato la fiction ed è stato davvero bello».
Il legame con Lecco è forte e lo si vede anche nella passione che mette nell’ evidenziare quello che non va.
«Amo criticare le criticità, ma per migliorare. Faccio un esempio, il Ponte Azzone Visconti. Dovrebbe essere il nostro simbolo, una volta si entrava in città da lì e adesso non si può fare: è brutto e pericoloso e nessuno fa nulla per metterlo a posto. Per non parlare di via Mascari, che potrebbe essere la Brera di Lecco»

















