di Luigi Lembo
Sarà certamente capitato anche a voi di provare quel senso di disagio, scendendo in pullman da Anacapri magari in una giornata di pioggia, e guardare quasi con sgomento il precipizio che si apre pur davanti ad un panorama mozzafiato. Una paura quasi ancestrale che probabilmente trae origine da quello che è stato uno dei più tragici incidenti stradali accaduti a Capri. L’anno è il 1943, l’Isola era ancora suo malgrado al centro di vicende belliche dolorose. Strategiche erano le tre batterie antiaeree collocate su un’altura di Anacapri e i cui artiglieri avevano il compito di creare un “fuoco di sbarramento” contro gli aerei angloamericani diretti verso Napoli. A loro spettava inoltre il compito di segnalare l’arrivo di formazioni aeree nemiche e permettere poi ai nostri piloti da caccia di affrontare gli incursori proprio nel cielo del golfo. A tal proposito mitica divenne, in quegli anni, la figura del tenente pilota Riccardo Monaco, napoletano, che come racconta Aldo Stefanile in un libro sui cento bombardamenti di Napoli affrontava gli apparecchi angloamericani prevalentemente nelle zone aeree comprese fra Capri e Ischia, riuscendo spesso a metterli in fuga. L’11 aprile del 1943 il fuoco di una di queste postazioni abbatté un aereo nemico; l’equipaggio, cinque americani, si salvò lanciandosi col paracadute dandosi poi prigionieri. Appena due mesi dopo, il 21 giugno 1943, a quattro miglia da Punta Tragara, un mezzo navale tedesco colpì il sommergibile inglese “Splendid” traendo però in salvo, dell’equipaggio, cinque ufficiali e sei marinai. Quel pomeriggio del 24 febbraio 1943 era particolarmente piovoso; i ventuno artiglieri addetti a queste batterie, guidati dal capitano Marco Medici, presero posto su un autocarro militare diretto alla Marina Grande; qui dovevano caricare casse di munizioni. Erano allegri e quasi festanti per quella missione che stemperava un po’ la tensione delle lunghe ore passate in postazione. In una curva non molto distante dall’albergo Cesare Augusto il camion sbandò e precipitò dall’altezza di alcune centinaia di metri. Morirono tutti, quegli artiglieri, giovani per lo più sui vent’anni. Un solo «anziano», fra di loro: il trentacinquenne Giacomo Agnese, un napoletano che, da borghese, lavorava nella soprintendenza ai monumenti. Il figlio di questi Gino Agnese, giornalista e storico del futurismo, a lungo presidente della Quadriennale d’arte di Roma, racconterà qualche anno dopo una storia collegata a quella triste vicenda e riportata in un giornale d’epoca, che ha dell’incredibile. “Nel 1982, fui chiamato a far parte della giuria di un premio letterario per bambini intitolato Il nonno ricorda. Parteciparono un migliaio di scolari. A me furono dati ottanta elaborati. Uno di essi recava la firma di una bambina caprese: il nonno, che nel febbraio del 1943 si trovava come sentinella, di guardia a una polveriera, era stato testimone dell’incidente in cui aveva perso la vita mio padre e ne narrava tutti i particolari. Io allora avevo appena sette anni, ricordo solo che per ordine del principe di Piemonte, nostro quasi coinquilino nel bosco di Capodimonte, i resti di mio padre vennero subito portati da Capri a Napoli” A memoria di questo tragico fatto esiste ancor oggi una semplice lapide lungo il muro della carreggiata nel punto da dove avvenne il tragico volo.