Fonte: Roma
di Armida Parisi
Dopo l’anteprima a Capri, “Sugli abissi amari” di Diego Nuzzo (nella foto a sinistra/ph. Davide Visca) arriva a Napoli dove andrà in scena al Teatrino di Palazzo Donn’Anna venerdì alle 21 per la rassegna Wunderkammer.
Accompagnato al piano da Matteo Cocca, è Roberto Azzurro (nella foto a destra) a interpretare il ruolo del protagonista, Jacques d’Adelswärd-Fersen, il colto barone francese che, insofferente alla società parigina della Belle Époque, si trasferì a Capri per vivere immerso nella selvaggia bellezza dell’isola dove scelse di morire nel 1923. Un personaggio accattivante e tragico, cui Nuzzo ha voluto restituire la parola, almeno nell’illusione scenica.
Perché “Negli abissi amari”?
«È un verso de “L’albatros” di Charles Baudelaire. Il barone Jacques d’Adelswärd-Fersen, il protagonista della pièce, ha vissuto la temperie culturale che Baudelaire aveva contribuito a creare con le sue liriche. Senza I fiori del male non ci sarebbe stato il decadentismo di cui Fersen fu epigono senza, purtroppo, avere il genio dei suoi predecessori.
Quando ho cercato di scavare nella sua vita mi sono tornati ossessivamente alla mente quei versi che disegnano icasticamente un’esistenza struggente e malinconica e ho deciso di utilizzarli come titolo dello spettacolo».
Chi era realmente il barone Fersen e quale lettura ne dà il suo atto unico?
«Fersen era un uomo complesso, tormentato, un’anima divisa in due tra la brama di vivere e la tensione verso ogni forma d’arte che voleva incarnare con la costruzione meticolosa del suo personaggio. Di fatto il suo vero capolavoro, al di là delle opere che ha scritto, è stata la sua stessa vita: una frase che appartiene a Oscar Wilde che è un po’ il deuteragonista di questa vicenda, colui che darà il la all’estetismo esasperato del barone. Non possiamo conoscere i suoi sentimenti, il suo struggimento, le motivazioni profonde che lo portarono al gesto estremo: possiamo soltanto azzardare delle ipotesi. Ed è quello che ho fatto».
È la prima volta che si misura con un personaggio realmente esistito?
«Mi incuriosisce investigare la vita di personaggi realmente esistiti, mi piace ricostruire un periodo storico, il fascismo per Formiggini, protagonista di un mio precedente lavoro,i primi anni del Novecento per Fersen. Anche nel romanzo “Le notti e per sempre” ambientato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, appaiono agganci con personaggi storici come il generale Cadorna e i suoi fedelissimi di cui ho cercato di ricostruire fedelmente le viltà e le turpitudini».
Come ha fatto a ricostruire i pensieri di Fersen?
«Fersen ha lasciato diversi scritti, ma ho avuto accesso anche a tutta la documentazione che fu rinvenuta dopo la sua morte, l’inventario degli oggetti trovati in casa, il testamento con cui cercò di regolare i conti con una famiglia che lo aveva sempre disprezzato per il suo pervicacemente porsi al di fuori delle convenzioni che la sua classe sociale d’appartenenza gli avrebbe imposto.
Quando sono andato per la prima volta a villa Lysis, nei primi anni ’90, la casa era in totale abbandono: scavalcai un cancello periclitante e mi ritrovai in quel giardino che solo socchiudendo gli occhi potevo immaginare curato nei minimi aspetti. Per terra, tra i rovi, trovai un piccolo frammento del pavimento del terrazzo; pensai che forse su quella stessa scheggia di ceramica il barone aveva passeggiato a piedi nudi al tramonto. Quel lacerto all’apparenza insignificante di maiolica smaltata è stato il punto di partenza per ricostruire le disillusioni e lo struggimento per una vita tormentata».
A Capri Fersen aveva modo di vivere liberamente la propria omosessualità in un contesto magnifico. Cosa a suo avviso lo rese infelice al punto da darsi la morte?
«Arrivato a Capri in una sorta di esilio volontario da Parigi in cui era stato coinvolto in uno scandalo, Fersen fece erigere su uno spuntone di roccia a strapiombo sul mare, Villa Lysis, il cui nome prende le mosse dal dialogo di Platone “Liside sull’amicizia”.
Un’iscrizione latina sopra l’entrata recita: “amori et dolori sacrum”, ovvero sacro all’amore e al dolore. Quando si rese conto che con il passare degli anni la sua vita sarebbe stata consacrata solo al secondo e non più al primo, decise di andarsene in punta di piedi. Aveva 43 anni, la stessa età di Oscar Wilde quando, entrando al Quisisana poco dopo il suo rilascio dal carcere di Reading, fu cacciato via perché gli ospiti dell’albergo non volevano che il grande commediografo e poeta potesse mettere piede nella sala da pranzo. Fersen quella sera era lì, appena diciassettenne, e assistette alla scena: io ipotizzo che quella visione di dolore per il filisteismo subito dal genio irlandese, abbiano segnato la sua vita al punto da ossessionarlo fino al gesto estremo. Non voleva invecchiare rischiando di subire la stessa umiliazione che era toccata a Wilde».
Nei suoi testi, teatrali e narrativi, lei tende a preferire il monologo. Per quale motivo?
«Il monologo è il modo in cui si dà voce al protagonista, in un preciso momento della sua vita o, come nel caso di Fersen, dopo la sua morte, quando si ha la possibilità di estraniarsi da tutto quello che è già accaduto e di guardare con distacco agli eventi, sottolinearli, commentarli, con la leggera, malinconica ironia disincantata dello spettatore ormai pacificato».