Fonte: Il Mattino del 20 settembre 2021
di Luciano Giannini
Almeno per oggi, proviamo a credere sia vero. Ore 14.30. All’ ingresso dello stretto pertugio con cui lei, antro di meraviglie, si difende dal vociare del mondo, c’ è il solito, estivo sciame di natanti nel solare meriggio di un magnifico settembre. Due scafi porta-turisti vomitano stolte strofe neomelodiche. Poveri noi! Dopo un po’ zittiscono, però. Miracolo! E si procede all’ ondivaga salita a bordo: venti barche, quattro passeggeri ognuna, più lo scafato battelliere. Tre spettacoli: alle 15, 16, 17.
Tutti giù per terra sul fondo del fasciame. I gabbiani osservano assorti. Una spinta di mani esperte sulla catena d’ appoggio inchiodata alla roccia e si entra: la Grotta azzurra! Lo sguardo si volge istintivo e rapido al fondo della cavità. La nicchia illuminata del ninfeo, quasi a pelo d’ acqua, sboccia improvvisa nell’ ombra come la capanna di Betlemme in un presepe buio, ma la natività è laica stavolta: Fiorenza Calogero, Mario Maglione, Carmine Terracciano, le loro chitarre classiche. Noi siamo i pastori. Discreti fari a batteria rischiarano. Null’ altro.
L’ acustica è naturale. Anzi, sovrannaturale. Pavimento della platea: l’ azzurro Grotta azzurra. Tra i colori non ha compagni neppure simili.
Un concerto nella grotta più famosa del pianeta: «È la prima volta. Facciamo la storia» gongola, dondolando come tutti noi, Geppy Gleijeses, direttore artistico del «Canto delle sirene», alla sua prima edizione.
Anzi, al suo prologo. Il festival di Capri, che si concluderà stasera a Procida (capitale italiana della cultura 2022) con Solfrizzi nel «Malato immaginario» di Molière, ha un’ ardita ambizione: «Dotare l’ isola di una rassegna internazionale degna del suo brand senza confini», spiega Gleijeses. È stato lui a generare l’ idea: non profanare silenzi millenari con il cicalio stordente del turismo di massa, ma fondere la stupefazione con la musica, l’ incanto del luogo e quello della melodia classica di Partenope: omaggio all’ intuizione romantica di Kopisch, che riscoprì quest’ utero roccioso e divino giusto nel 1826. La platea galleggia liquidamente azzurra. Lo scialacquio è orchestra di natura. Tiepida, umida atmosfera. Ci sono anche dei giapponesi ma, si sa, loro arrivano dappertutto. Il concerto era in programma sabato. Poseidone, però, si è opposto. Impossibile entrare con quelle onde. Ieri due miracoli: San Gennaro ha compiuto il suo e anche il dio del mare, convinto forse dal fedele corteo di Nereidi e Tritoni, si è ammansito, intimando ai flutti di chetarsi. «Per favore, silenzio ora. Si comincia!».
Calogero con «Voce e notte», Maglione con «Era de maggio» trasportano subito il cuore lontano. Canto e accompagnamento seguono fedeli la tradizione, senza orpelli e virtuosismi, che in questa occasione stonerebbero. Il controllo delle voci è esperto. Gregorovius scrisse: «La Grotta evoca i racconti delle fate, che ai bambini sembrano così vere». E il popolo bambino, assiepato e ondeggiante intorno al ninfeo, insegue rapito le fate napoletane. Come nel maggio di Costa e di Giacomo, l’ aria è «’mbarzamata» e, come a Marechiare, «pure li pisce nce fanno a l’ ammore». Da soli e in duetto, Mario e Fiorenza percorrono il sentiero della storia sonora: «’ O marenariello»; «Torna a Surriento», «Canzone appassiunata», «Reginella», «Tarantella napulitana». Poi, «Luna caprese», unica eccezione d’ epoca, perché qui dentro tutto è «mistero int”a sta notte chiara». E si chiude con «’O surdato nnammurato», per fortuna cantato con il ritmo lento che asseconda lo stile e le parole dell’ opera.
Il pubblico intona gli inni di Partenope. La sirena ascolta. E il miracolo, anche se per un attimo, si compie: in questa bolla che esclude spazio e tempo, sotto un cielo cupo di pietra, sopra un mare stellato, quei motivi, nati per sublimare nell’ arte l’ armonia perduta di Napoli congiungono l’ identità di popolo con il genius loci di questa terra benedetta da Dio e ferita dagli uomini. Almeno oggi Dostoevskij ha ragione: la bellezza salverà il mondo.