Fonte: Roma
di Sergio Califano
“C’ è stato qualcuno che recentemente ha detto che la parola Sempre è enorme, irragionevole e dilata i tempi. Quel qualcuno è qui, seduto in prima fila, e si chiama Pupi Avati. E stasera l’ augurio ai ragazzi, ai giovani che partecipano a questa manifestazione, è di continuare ad essere sempre determinati, arrabbiati, incazzati, decisi a rifiutare il principio del reddito di cittadinanza e rimanere sul divano in mutande a giocare alla play station. Sempre, sognando in grande”. Quel qualcuno con la barba bianca seduto in prima fila dapprima mi aveva guardato perplesso ma poi aveva continuato ad ascoltare il mio intervento al Capri movie international film festival. E allora sapete come vanno queste faccende: sarà stata la luna caprese, i silenzi ovattati di Tragara, il vino che da quelle parti non è che sia granchè, oppure la sensazione cristallizzata che procura quest’isola dove tutti sono impegnati a non fare nulla e lo fanno con il massimo impegno. Insomma sabato 18 settembre ho stappato la bottiglia delle mie frustrazioni visionarie di figlio del Sud, sempre “in attesa di”, comune a tutti quelli che aspettano il passaggio del tram giusto e imparano a declinare il verbo sperare in tutte le forme: magari, chissà, domani, vediamo, può darsi che. L’uomo con la barba bianca è rimasto seduto lì in prima fila e non è andato via, nè si è appisolato sulla poltroncina azzurra, e i suoi 82 anni glielo avrebbero consentito. Alla fine è successa una cosa imprevedibile, di quelle che danno un senso, giustificata forse soltanto dal fatto che eravamo alla vigilia della festa di san Gennaro. Faccia gialla ha anticipato di qualche ora il miracolo: Avati mi si è avvicinato a braccia aperte con il suo sorriso emiliano e mi ha abbracciato. E in quell’abbraccio che mi ha regalato il cantore delle nostre emozioni ho ritrovato tutto, davvero tutto: ho ritrovato una gita scolastica che 40 anni fa ha cadenzato i tempi e le suggestioni della mia educazione dei sentimenti e mi ha aiutato a piangere in maniera liberatoria in una soffitta bolognese al tempo della grande indigenza e dei miei mille chissà, domani, magari. Ho ritrovato piazza Grande con i suoi scalini in marmo che d’inverno non sono il massimo per dormire sotto le stelle, ho ritrovato la nebbia che avvolge tutto e che, come cantava Dalla, non ti fa “vedere un casso”. E ho ritrovato la città sazia e disperatissima dove non si perde neanche un bambino, e le piadine alle feste dell’Unità dove si frigge sempre qualcosa e dove si suonano ancora i dischi di Casadei perché senza Romagna mia non sarebbe la stessa cosa e dove la festa di Casalecchio o Monghidoro non sarà mai la festa del Pd ma sempre del Pci. Sempre. E ho ritrovato gli “sboroni”, i basilischi emiliani che stracciano la vita indolenti come Gli amici del bar Margherita, vivendo di mille piccoli espedienti, sempre col mito della gnocca e della fuoriserie fino a quando arriva la Finanza, gli toglie i lacci delle scarpe e la cravatta e li porta al carcere della Dozza. Insomma in quei cinque secondi di abbraccio i miei neuroni hanno ricostruito tutto il film dei miei anni bolognesi. Però sono soltanto riuscito a dire “Maestro, io mi sto squagliando”. E lui aveva la barba bianca che sorrideva “Ma va’ là”. Vero, aperto, finto, strano Chiuso, anarchico, verdiano Brutta razza, l’emiliano (Dalla, Morandi, Guccini, giusto per rimanere in zona).