Fonte: Il Mattino
di Ernesto Mazzetti
È coinvolgente la dichiarazione d’ amore che l’ eminente uomo di teatro Geppy Glejieses rivolge all’ isola di Capri. Amore duraturo.
Ben 46 anni fa sentì, scrive sul Mattino, che lì era il «suo mondo» e tale tuttora resta. Nonostante. Ma sì; ricorre a questa preposizione avversativa per testimoniare la sua sofferenza nel constatare quanto questo suo mondo sia oggi oppresso da degrado, frastuono, cafonaggine.
Constatazione che lo accomuna a molti altri amanti delusi, vulnerati dal sentirsi progressivamente privati dei doni materiali e immateriali con i quali Capri li aveva avvinti. Come il più sensibile tra questi, Raffaele La Capria, che quasi un trentennio fa elevò a dignità letteraria quel suo sfogo nel libro «Capri e non più Capri». Bellezze di paesaggi, e soprattutto atmosfere. Magie di silenzi, di profumi. Inebriante percezione d’ una identità di luoghi costruita da presenze remote, la storia, le leggende, le ombre di artisti, poeti, personaggi belli e dannati. E, nei tempi ancora recenti, la sensazione d’ essere spettatori in un teatro sul cui palcoscenico potevano alternarsi personaggi della scena mondiale, attori, attrici, intellettuali di fama, uomini potenti o ricchi, donne stupende.
La capisco, caro Glejieses.
Anche per me Capri, se non «tutto», occupa un posto assai rilevante nel mio mondo. Da più numerosi anni, cifra sulla quale preferisco sorvolare, di quelli da lei menzionati. Che mi dettero modo d’ incontrare non solo alcuni dei personaggi da lei evocati, ma molti altri che assai significativamente contribuivano a mantener vivo il «mito» di Capri nei decenni successivi al secondo dopoguerra. Tra cui tanti cari colleghi, giornalisti e saggisti le cui cronache e narrazioni ancor oggi ci serbano quanto di più bello, colto, nobile, singolare, seducente l’ isola, col suo popolo, i suoi frequentatori illustri o extra-ordinari, abbia regalato al mondo.
Vogliamo chiederci il perché di tante delusioni? In effetti la risposta, caro Glejieses, è nell’ ultima riga del suo scritto: «Capri è patrimonio dell’ umanità». Già, l’ umanità si è accorta di Capri. E l’ umanità comprende miliardi di persone, che sono raggiunte da messaggi che veicolano miriadi di suggestioni, desideri, illusioni, moventi imitativi. Ed anche Capri è entrata in questo flusso di comunicazioni. Men che mai c’ è da stupirsene. Oggi come non mai. Sapete quanti telefoni c’ erano a Capri negli anni 50 del secolo scorso?
Sedici. Gli alberghi, qualche professionista. L’ abbonato più illustre era Curzio Malaparte.
Capri appariva allora lontana, scomodamente accessibile. Costosa; inadatta ai bambini.
Fors’ anche un po’ peccaminosa. Insomma luogo per visitatori e soggiornanti d’ élite, o eccentrici. Sebbene già negli anni anteguerra il regime fascista avesse incoraggiato uno sviluppo turistico, bisognerà attendere la fine degli anni 60 per vederla anch’ essa investita da un afflusso massivo.
C’ è una data precisa nella trasformazione del turismo caprese. Nella sua dilatazione o, sarebbe più giusto dire, nella sua deflagrazione. È con la fine degli anni 70, con la messa in funzione dei collegamenti a mezzo traghetti che sostituirono gli ansimanti vaporetti, che tutto cambia. Quattro traghetti, poi due più veloci: ogni viaggio da 5 a 700 passeggeri e decine di auto, camion, motocicli. Aggiungeteci decine di aliscafi e catamarani ed ecco che da questo «rubinetto» marino sgorgano flussi quotidiani che nei giorni di punta superano i ventimila passeggeri e centinaia di mezzi.
L’ ho scritto più volte, l’ ultima un mese fa. È un fenomeno che ha effetti collaterali gravosi: sul consumo di suolo, di paesaggio, di identità. Ma troppi interessi premono per tenerlo ben aperto questo rubinetto: armatori, agenzie, padroni di pulmini per comitive, noleggiatori di motocicli, gommoni, bar, ristoranti, commerci.
È patrimonio dell’ umanità, certamente, Capri. Ma purtroppo l’ umanità comprende anche molta, troppa gente che transita sull’ isola con poca o nulla consapevolezza del valore, dell’ identità dei luoghi. Ed in vario modo ne ruba frammenti, sia pur nell’ immaterialità dei ricordi e delle emozioni, a danno di chi questo luogo ama davvero, da decenni. Comprende, l’ umanità, in numero crescente gente d’ ogni sesso e d’ ogni età, lingua ed etnia, che con la propria sguaiata frequentazione, o con l’ ostensione di abbigliamenti, comportamenti, chiassosità, tra le stradine e la piazzetta, sui lidi o nelle insenature quelli dotati di mezzi nautici e malauguratamente sono innumerevoli finisce per svilire questo patrimonio. Dubito che a questa spirale negativa si possa opporre efficace rimedio. La consapevolezza di essere compartecipi di tale patrimonio induce troppi a lucrarvi, indigeni ed allogeni. Basti pensare anche alla moltiplicazione dei B&b; bar, ristoranti, griffe mondiali che hanno soppiantato botteghe artigiane. Rimedi?
Certamente possibili. Volontà di attuarli, dentro e fuori l’ isola? Credo poca. Ed allora ognuno dei vecchi amanti di questo luogo mirabile se ne tenga stretta la memoria più autentica; ne recuperi gli incanti nei mesi meno oppressi dall’ assedio turistico. Nei lidi alla moda distolga lo sguardo da odierne visioni di addomi ridondanti recuperando il ricordo, o l’ immaginazione, delle tante, affascinanti bellezze al bagno che quegli scogli frequentavano un tempo che ci appare irrimediabilmente perduto.


















