Fonte: Il Mattino
di Ida Palisi
Sarà Helena Janeczek ad aprire questa sera a Villa San Michele ad Anacapri «Le conversazioni» che compiono 15 anni. La scrittrice di origini polacco-tedesche, vincitrice del Premio Strega nel 2018 con La ragazza con la Leica (Guanda), converserà con Antonio Monda nella storica dimora di Axel Munthe, per inaugurare il ciclo di incontri che vedranno protagonisti fino a sabato (a punta Tragara a Capri domani) Melania Mazzucco, Luigi Guarnieri, Valerio Magrelli, Alessandro Piperno e Antonio Scurati.
Di che cosa parlerete, Janeczek?
«Partiremo dal tema del potere, in una delle forme di scambio che produce sapere condiviso sin dai tempi dei dialoghi platonici. È un privilegio essere qui e potere aprire questa edizione un po’ particolare, però l’ isola si è abbastanza piena quindi alla fine anche dove sembrava che non si potesse fare granché perché è successo qualcosa di più grande del nostro potere, invece ci possiamo tentare».
La riflessione sul potere quanto ha a che fare con la scrittura secondo lei?
«In questo ultimo decennio siamo stati esposti a narrazioni molto popolari sul tema. Il tratto comune di storie come House of cards o Gomorra, solo per fare qualche esempio, è che hanno come sottinteso un anelito al potere molto forte, un machiavellismo di fondo come viene comunemente inteso. Implicitamente c’ è anche l’ ombra lunga di Shakespeare che ha esplorato il potere in diversi modi, e non sempre si presenta sotto la forma del dramma tra re ma anche in quella delle relazioni familiari o d’ amore.
Non c’ è nulla che non sia toccato dal potere ma non necessariamente segna una parabola che va verso la corruzione etica degli esseri umani».
Per lei cosa rappresenta?
«Il fondamento della nostra cultura ci insegna che siamo coloro che sono stai creati a immagine e somiglianza di Dio e il nostro compito è di assoggettare le altre forme di vita, invece da sei mesi il potere su di noi lo ha avuto un micro-organismo che sta nella scala più bassa delle specie viventi e non abbiamo potuto fare altro che subire la sua potenza collettivamente come non ci capitava da oltre mezzo secolo e mai in questa forma, quella di vivere un’ epidemia globale. Adesso ci stiamo attrezzando a convivere con questo essere che Donatella Di Cesare ha definito il virus sovrano. Ma anche se siamo stati spodestati stiamo cercando di impadronirci di queste dialettiche servo padrone».
Lei che è riuscita nei suoi libri ad affrontare la storia senza spaventarsi, narrando le grandi tragedie del passato, oggi come racconterebbe il presente?
«Ho da poco consegnato un mio contributo a un’ antologia di scrittori italiani e tedeschi sul tema dell’ indifferenza in cui ho messo dentro questa cornice dell’ essere bloccati ognuno a casa sua una storia che racconta fatti accaduti prima.
Quando sei molto vicino a un trauma collettivo, come fu ad esempio l’ 11 settembre, è molto difficile avere uno sguardo che non si limiti alla cronaca, ma che riesca a assumere anche un punto di vista diverso».
La sua ragazza con la Leica cosa fotograferebbe per parlarci del Covid-19?
«Come tutti i ragazzi lo affronterebbe con un po’ di temerarietà. In verità è una situazione molto complicata da rappresentare e anche delicata e se è vero che certe immagini come quelle delle persone intubate pongono problemi etici, credo tuttavia che la fotografia sia uno strumento necessario, per evitare che prenda piede la deriva del negazionismo».
Che rapporto ha con la Capri di Wilde e di Axel Munthe?
«Non posso non ricordare che la persona a cui devo indirettamente il fatto di essere qui con il libro a lei dedicato, cioè la fotoreporter Gerda Taro, è stata sull’ isola nei mesi invernali, da ottobre a dicembre del ’36. Andò a trovare un suo ex fidanzato che era a Capri perché il fratello vi alloggiava in una stanzetta presso dei contadini, col piacere di vivere in questa natura selvaggia e in maniera spartana».