di Luigi Lembo
Giorni fa, in un tiepido pomeriggio primaverile mi è capitato di conversare, giù a Marina Grande, con uno storico “zulù”, della Marina che non c’è più… un ricordo di personaggi insoliti, curiosi, grezzi e particolari che caratterizzavano tra gli anni 60 e 80 il nostro Borgo Marinaro. Il racconto mi ha dato l’opportunità di rivivere un bel articolo di Rosanna di Giaimo sulla rivista online Ulisse che raccontava proprio di quest’angolo di Capri oramai scomparso. Un viaggio che iniziava con Carmelina che gridava, ai primi turisti della giornata, “One hundred! One hundred!” offrendo allegre nacchere dagli improbabili natali capresi. “Cartoline, cartoline!” faceva eco Costanza, mentre Colomba incalzava: “frutta fresca!” Erano queste le voci del mattino, argentine come il fischio del primo “vaporetto”, lì sul piccolo slargo della Capitaneria di Porto, al borgo marinaro di Marina Grande. Il carretto verde della frutta c’era ancora fino a qualche anno fa sempre gestito dai figli di Colomba: lei non c’è più, come non ci sono più Carmelina e Costanza e neppure le nacchere e le cartoline. Da allora tutto è cambiato! Alla banchina dei motoscafi per la Grotta Azzurra (quando il prezzo del biglietto era ancora 300 lire), ‘Ntulino ‘u forchettone e Costanzo ‘u caicco organizzavano i gruppi di turisti con maestria e calma, anche quando qualcuno, nella ressa, cadeva nello specchio di mare lasciato libero da imbarcazioni di ogni tipo. Erano gli anni Sessanta, l’epoca di “Mare Moda” che faceva confluire sull’isola le grandi firme della sartoria internazionale. Erano gli anni in cui tanti divi “sfilavano” per la Marina, senza scorta dal traghetto ai taxi, belli sempre lucidi e colorati, prodighi di autografi e sorrisi. Tra questi, Claudio Villa ad esempio, approdava sempre senza autorizzazione con il suo smargiasso yacht: toccava allora al comandante del porto, che non faceva sconti a chicchessia, allontanarlo come un comune, mortale trasgressore. Giuseppe Faiella, in arte Peppino di Capri, non si sa se per economia o per piaggeria, viaggiava invece in aliscafo, utilizzava la funicolare, portando da sé il bagaglio; le giacche appese ad una stampella retta per il gancetto dondolavano dietro la schiena. Erano gli anni in cui i Kennedy, habituè dell’isola, gustavano la cucina dei ristorantini della Marina con palese avidità mentre i loro giovani rampolli mostravano non poca imperizia nell’uso della forchetta alle prese con gli spaghetti: li avvolgevano con le dita. Erano gli anni in cui anche gli animali facevano la loro parte: Arturo, il vecchio pappagallo accovacciato sul trespolo all’ingresso dell’osteria di Totonno, agli avventori che lo chiamavano con insistenza non mancava di rispondere scocciato: “povero pappavall’!” In proposito si narrava che l’occhio mancante a Totonno fosse conseguenza di una decisa beccata di Arturo, stufo di dover “recitare” la sua parte di “pennuto scocciato”. Qualche ingresso più in là c’era Mauriello; da lui si consumavano le colazioni “capresi”: il classico panino con pomodori e mozzarella, tutto affettato. Sempre ancor oggi affollata la sua salumeria, d’inverno e d’estate. Se oggi le licenze di barche e noleggiatori a gogò se ne trovano a iosa, all’epoca avere una barca era questione di vita, di esistenza. Il giro dell’isola era un’avventura dello spirito e una prerogativa dei cosiddetti “Signori”. Le grotte, gli anfratti, le pareti rocciose a picco erano un valore da preservare e riservare a pochi, tali da rimanere impressi nella retina dell’anima come dono esclusivo . E durante questi tour poteva capitare anche di incontrare Gennarino, (oggi ancora dinamico pensionato) il sub più famoso ed unico dell’isola a cui faceva concorrenza Eddy detto “siccietella”. Gennarino si immergeva con esperienza. Lo fece anche allorquando la montagna, scendendo giù rovinosamente nell’insenatura di Caterola, uccise ‘u ferone, un pescatore locale così chiamato per la sua considerevole mole. E di tragedie in quegli anni la Marina ne racconta molte: soprattutto d’inverno quando il mare cambiava la sua voce. Quando mugugnava furioso, spruzzando le case attintate della Marina. Capitava così spesso che per il forte vento, il “Faraglione” o altri gusci di noce similari provenienti da Napoli, non potevano entrare nel porto: al capitano in attesa di istruzioni non restava che andare con la nave su e giù, lontano dalla costa o peggio ritornare indietro. L’inverno alla Marina aveva poi un andamento lento, ma si ritornava alla vita “normale” scandita dalla scuola, dal lavoro, dalle passeggiate tranquille e solitarie per stradine, scalinate e piazzette divenute d’incanto troppo ampie. La salita per Via Marina Grande, alla svolta della chiesa di San Costanzo, lasciava il mare offrendo all’animo un paesaggio mutato. Era l’inaspettata campagna di Capri ancora con muretti a secco, orti, viti, aranci, ulivi, castagni. Va detto che c’è ancora, ma con le pendici collinari un po’ più disegnate di case. Mutava anche la gente, d’inverno. Diventava taciturna, riservata, legata ai ritmi di una natura non sempre generosa. Sembrava quasi godere del silenzio dell’isola, un silenzio avvolto dalla luce ramata del sole al tramonto, come in un vecchio libro di Proust, di una Marina chiamata Combray, perennemente alla ricerca del tempo perduto.


















