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La Lettura della Domenica di Luigi Lembo – San Costanzo e il grappolo d’uva

di Redazione
3 Novembre 2021
in Cultura, Events
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Seggiovia Monte Solaro

di Luigi Lembo

Esistono dei dettagli, talvolta ritenuti marginali o poco rilevanti, che prendono origine da eventi talvolta tragici o comunque poco conosciuti, che spesso nascono da momenti topici della nostra storia e che caratterizzano la nostra identità socio-culturale. E’ il caso legato ad un piccolo pezzo d’argento posto sulla statua di S. Costanzo. Sarà sfuggita ai più il fatto che il nostro Santo Patrono,  San Costanzo, nel suo simulacro d’argento che risale al 1715 ad opera dell’architetto Domenico Antonio Vaccaro, ha nella mano sinistra benedicente, seminascosto, un grappolo d’uva. La presenza di questo insolito oggetto è legato ad un ex voto risalente al 1839, acquistato con una pubblica colletta e richiesto in conseguenza di un’epidemia di filossera che colpì Capri. La fillossera era un afide di origine Nordamericana che arrivò in Europa a metà Ottocento e che in pochi anni portò alla quasi estinzione della viticoltura nel vecchio continente.  Le foglie diventavano rosse e cadevano, i grappoli avvizzivano e le radici marcivano. Jules Emile Planchon, capo del dipartimento di botanica dell’università di Montpellier, fu messo a capo di una commissione di indagine europea. Le piante colpite dalla malattia non presentavano alcuna causa evidente, neppure a livello microscopico. Planchon ebbe l’idea di studiare le piante apparentemente sane che crescevano a fianco di quelle morte. Fu così che scoprì che le radici di queste piante erano infestate da un piccolo insetto giallastro che ne succhiava la linfa. Il problema fu superato innestando le varietà autoctone europee su vite americana, tollerante agli attacchi radicali di questo afide ma questo naturalmente non era risaputo tra i poveri contadini isolani che non restava altro che appellarsi a San Costanzo. Se la cosa, pare,  ebbe successo in un primo tempo, storia fu che il parassita ritorno a colpire nel 1846 tanto che per oltre due anni non vi fu produzione vinicola sull’Isola. Questo crollo della viticultura ridusse la popolazione in uno stato di ancor più penosa indigenza, tanto che Ferdinand Gregorovius, durante la sua permanenza di un mese a Capri nell’estate del 1853, narra come le donne nelle campagne per non rimanere senza soldi vendevano tutto: collane, orecchini, anelli “il che è segno di grande calamità – diceva Gregorovius – perché solo la disperazione estrema può portare una donna a separarsi dai suoi ornamenti”. Racconta inoltre di quotidiane processioni di uomini incappucciati di bianco e coronati da un serto di rovi e di donne coperte da lunghi veli bianchi che si snodavano lungo le strade del paese sfiorando i campi coltivati a vite addossate alle poche case del centro storico.  Il problema del crollo della produzione di uva da vino significava per molti contadini isolani perdere soprattutto la principale forma di ricavo per pagare il canone d’uso dei propri terreni. In quel periodo infatti buona parte delle terre agricole isolane appartenevano a Napoletani e perdere il ricavo dalla vendita del vino non compensava quello della produzione di frutta, formaggio o allevamento di bestiame. Le esigenze economiche spinsero così molti agricoltori locali a riprogrammare la produzione importando piante da aree vicine e ricreando in breve tempo una produzione che aveva resa famosa Capri già nel periodo romano. Non a caso infatti il vino di Capri era apprezzato già dai romani e lodato dall’imperatore Tiberio che per la sua passione enologica, si era guadagnato il soprannome di Biberio.  Si crearono così due prodotti che saranno particolarmente apprezzati dai primi visitatori del nuovo secolo: il Capri Rosso prodotto con l’uva Piedirosso, un  vitigno autoctono campano che è ora diffuso qui a Capri  più in  altro luogo, pur essendo ampiamente coltivato anche attorno al Vesuvio per l’utilizzo nei vini Lacryma Christi e Il Capri Bianco ottenuto invece da uve dei vitigni Falanghina e Greco Bianco.

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