di Luigi Lembo
Se andate a Santo Stefano, in quella che è la cappella dedicata alla Vergine sul lato destro della chiesa, noterete una lapide annerita dal tempo, dedicata ad un personaggio per certi versi dimenticato e su cui da tempo aleggia anche un mistero. Parliamo di Carlo Bonucci, famoso archeologo noto ai suoi tempi per le eccezionali scoperte pompeiane della Casa del Fauno e del grande mosaico di Alessandro. A Capri Bonucci scavò a Villa Jovis, e nel 1856 scoprì sul monte San Michele una grotta, a suo dire “meravigliosa”. Un antro che, come riferisce Carlo Knight in un suo articolo sul Corriere del Mezzogiorno, aveva il pavimento coperto di strumenti dell’età della pietra e «ossami di animali antidiluviani». Stranamente però oggi Capri sembra aver dimenticato questo personaggio; praticamente nessuno ne conosce il nome. Pare quasi che nei suoi confronti sia stata decretata una sorta di damnatio memoriae. Bonucci aveva settantuno anni quando, il primo maggio 1870, decise di trasferirsi per sempre a Capri andando ad abitare in una porzione dell’attuale «palazzo Cerio» che pare gli appartenesse. In quel palazzo morì cinque mesi dopo. Bonucci era stato direttore degli scavi di Pompei e membro della prestigiosa Accademia di Francia. Avrebbe quindi potuto darsi delle arie. Invece quando conobbe Ignazio Cerio, un giovane medico condotto dell’Isola che studiava con passione la storia naturale e l’archeologia, l’accolse quasi come un collega incoraggiandolo e dandogli dei consigli. Riesce pertanto difficile credere come Ignazio Cerio abbia, qualche anno dopo, nel 1906, potuto accusare Bonucci d’essere stato un falsario e un imbroglione. Secondo Cerio infatti, nella grotta del monte San Michele, Bonucci aveva scambiato per ossa di animali preistorici dei frammenti di stalattiti. Ed aveva poi truffato un nobile francese proprietario di un museo privato, vendendogli delle punte di freccia preistoriche e dicendo di averle trovate nella grotta «ossifera» caprese. Le accuse di Cerio oltre ad essere non documentate rimanevano inspiegabili e tardive. A fornire luce sulla vicenda contribuisce però una coincidenza di date: nel 1906 Cerio aveva scoperto, durante lo scavo per l’ampliamento dell’hotel Quisisana, degli utensili dell’età della pietra e alcune ossa fossili di mammiferi estinti. Ossia le stesse cose che Bonucci aveva scoperto – mezzo secolo prima – sul monte San Michele. La soprintendenza archeologica napoletana volle verificare la validità della scoperta di Cerio e mandò l’ispettore Innocenzo Dall’Osso (il cui nome era tutto un programma…), che aveva appena terminato il riordino e l’allestimento delle sale preistoriche del Museo Archeologico di Napoli, a effettuare un controllo. A Capri l’ispettore raccolse testimonianze che mettevano in dubbio le dichiarazioni di Cerio. A quel punto scoppiò una disputa feroce che coinvolse anche Benedetto Croce.Ma forse la vera ragione di questa rivalità era da ricondurre ad altri meri interessi legati alla proprietà stessa di Palazzo Cerio. Nel 1921 Edwin, figlio di Ignazio, parlando del “Palazzo” scrisse che “dai Feola la casa passò ai loro parenti Giovan Pietro e Pasquale Cerio, e da essi la ereditò Ignazio Cerio”. I documenti dell’archivio notarile di Napoli dimostrano che Edwin narrava i fatti lasciando troppo spazio alla fantasia. Le carte invece rivelavano una verità che certificava che Giovan Pietro Cerio, zio di Ignazio, dopo aver sposato una Anna Maria Leggieri, vedova d’un certo Gennaro Terracina, aveva nel 1851 donato la totalità dei propri beni (comprendenti la metà del «Palazzo Cerio») a Pietro Terracina, figlio di primo letto della suddetta Anna Maria Leggieri. La moglie di Carlo Bonucci era Marianna Terracina, sorella e unica erede di Pietro Terracina. Lei tra l’altro, convinta d’essere diventata ricca dopo la morte del fratello, ebbe un brusco risveglio a seguito di questa disputa. La disgraziata, rimasta vedova, finì poi in miseria. A tal punto che, per sopravvivere, supplicò un ministro di allora, Ruggero Bonghi, di concederle «un soccorso mensuale dai fondi dei letterati poveri».


















