di Luigi Lembo
C’è una storia, da molti dimenticata, che per certe assonanze ha similitudini con le tragedie che stiamo vivendo in questi giorni con la crisi Ucraina. Siamo nel lontano 1995, periodo in cui, quasi ogni giorno, nella rada di Marina Grande sbarcavano navi crociera provenienti dai maggiori porti del Mediterraneo; le periodiche come quelle della Siosa Line come il Caribia o l’Irpinia, quelli della Lauro come l’Angelina o l’Achille Lauro. Poi c’erano le navi straniere, per lo più noleggiate da tour operator tedeschi. Una di questa, tutta dipinta di bianco e dalla ciminiera bordata di rosso e di blu, arrivava ogni settimana, di buon mattino, davanti al porto di Capri. E’il 10 aprile 1995, la nave è l’Odessa, ammiraglia della flotta turistica Russa. La nave era stata costruita nel 1974 nel Regno Unito per la compagnia danese Nordline. Subito dopo la costruzione fu venduta in Unione Sovietica, dove ricevette il nome di “Odessa” Quella mattina, stranamente però le imbarcazioni del gruppo Motoscafisti adibite al trasporto dei turisti erano state bloccate dalla capitaneria: un telex del tribunale di Napoli aveva comunicato al comandante il sequestro conservativo della nave, richiesto da una società tedesca che avanzava crediti dalla Blasco per 45 milioni di dollari. La nave fu così scortata nel pomeriggio fino a Napoli dove, il giorno successivo, venivano sbarcati tutti i 361 passeggeri che si trovavano a bordo. Sulla nave rimanevano però i 265 membri dell’equipaggio. Iniziava per loro una gara di resistenza che sarebbe durata anni. Il comandante Valeriy Nadezhdin, 38 anni, uno dei più giovani della flotta ucraina resta prigioniero insieme ai suoi uomini, come in una Mariupol del passato, recluso nel porto di Napoli, ancorati al molo numero cinque. A loro non solo il divieto di sbarcare e di rientrare al loro paese ma, nello stesso tempo, la prerogativa di arrangiarsi da soli per il vitto e per ogni ulteriore esigenza. Si pensava che la cosa si risolvesse in fretta, ma i gangli della burocrazia bloccarono il dissequestro per ben due anni. Nel frattempo le scorte in cambusa si consumarono in fretta e alla nave e al suo equipaggio era nel frattempo proibito persino attingere acqua dai bocchettoni del porto o allacciarsi alla rete elettrica. Cominciò così per loro una stagione di stenti e di sacrifici a pochi metri dal Molo Beverello dove arrivavano e partivano ignari e ricchi turisti verso le località del Golfo. Il discorso era chiaro: non ci sono più soldi, la compagnia non paga, i marinai restano senza salario, la nave aveva consumato anche quel poco di carburante di riserva. Carburante che non serviva per andare a spasso, ma per l’ elettricità, per il riscaldamento, per respirare. Camminare sull’ Odessa era come fare un giro in un set dell’ assurdo: è una nave, ma non naviga, ha un dottore a bordo che però non può curare nessuno perché i medicinali scarseggiano e quelli disponibili sono scaduti, la piscina, senz’ acqua, è chiusa, i bar sono sigillati, le poltrone sono coperte con dei cartoni da barbone. Perfino la sala lettura era stata profanata: dove prima i turisti tedeschi si ritiravano a leggere con tranquillità, era stata realizzata una serra, per far crescere qualche pianta di insalata e pomodori per nutrirsi in emergenza. Un manipolo di giornalisti che la visitarono due anni dopo il sequestro raccontarono di sentirsi come dei necrofili; di fare un viaggio dentro un cadavere imbalsamato. Nemmeno l’ombra di quel Grand Hotel del mare che portava 454 passeggeri verso il sole, che a Capri si fermava solo per un transito di un giorno, con marinai biondi e la scritta in cirillico: Daecca. Adesso era lì, ferma, immobile, rigida come un cadavere, soffocata dall’ immondezzaio che la sporca e la villaneggia. I marinai avevano la faccia di quei pellicani spelacchiati che capitano sempre sui rifiuti sbagliati: giravano con la barba lunga, le scarpe rotte, la tuta sdrucita e macchiata, senza un soldo in tasca, chiedendo con molta dignità: avete sigarette? Il contabile di bordo, Nikolay Marcenko, ogni giorno teneva i conti: oggi in cassa, disse, ci sono duecento dollari, tra quattro giorni non sapremo proprio come fare. In cucina le cuoche Vera e Iliana tiravano avanti da mesi offrendo lo stesso menù: patate, zuppa di acqua e riso, tè. “Uno schifo, non ne possiamo più”. I rifornimenti arrivano da qualche nave russa che era capitata da queste parti e che aveva scaricata roba vecchia, avariata. “L’ ultimo pezzo di carne che ho mangiato arrivava dall’ Australia, forse aveva trent’ anni di vita, sicuramente puzzava, come tutto quello che ci arriva”, dichiarò il comandante in quell’occasione. Le cuccette dell’ equipaggio avevano perso l’ aria efficiente ed erano diventate dei bivacchi sentimentali, alle pareti ormai aveva vinto la nostalgia: foto della famiglia, nature morte, via le donne nude. La sera sembrava di stare al fronte: si cantavano le canzoni cosacche, quelle che parlano dell’ arrivo a casa, dei cavalli stanchi morti, della quiete domestica. Una gara di resistenza dove, andando avanti così, rischiano di essere eliminati tutti. A uno era nel frattempo già toccato: la notte del 6 aprile 1999 il secondo ufficiale di macchina Ak Senenko Dymyr, nato a Donstock l’8 novembre 1940, era morto nella sua cabina per un arresto cardiaco. Altri, a bordo, non sembrano stare molto meglio. Finalmente, quando oramai si erano perse tutte le speranze di una soluzione, la nave viene “liberata” e i suoi indomiti abitanti mandati finalmente alle loro case. Restava solo lo scheletro di una nave vanto della marineria Russa da inviare ad Alang per il taglio del metallo ed essere smantellata.