di Luigi Lembo
Si discute proprio in questi giorni di come Napoli e la Campania possa essere una zona gialla difronte a questa seconda ondata di pandemia di Covid 19. Ci si meraviglia non tanto della condizione altrui, ma del perché proprio la Campania sia avulsa da essere un luogo di rischio elevato di contagio e diffusione. La questione ha in effetti una valenza storica; il nome di Napoli in un modo o nell’altro è stato sempre accomunato alle infezioni più gravi. La sifilide, ad esempio, venne chiamata in Francia e in mezza Europa “le Mal napolitain” perché si riteneva che fosse scoppiata proprio nella città del Golfo. In realtà furono i mercenari francesi nel 1496 tramite le centinaia di prostitute che soddisfacevano gli appetiti dei soldati a diffondere il morbo. La storia si poi ripetuta con la Febbre spagnola che uccise tra il 1918 e il 1920, dai 50 ai cento milioni di persone nel mondo. In Italia le vittime furono circa seicentomila e di questi molti in Campania e anche a Capri, come riportato da giornali dell’epoca, nonostante che non esistano dati ufficiali a causa della censura. I biologi appurarono nel tempo che l’inizio dell’epidemia avvenne in alcune fattorie di suini nel Kansas dove i contadini si ammalarono per primi di una forma influenzale non grave (in questo simile al Covid19) che lasciava più del 90 per cento dei contagiati senza sintomi o con sintomi molto leggeri. Nei pressi degli allevamenti di maiali infetti c’era il Camp Funston dove venivano addestrati i soldati destinati all’imbarco per l’Europa. Questi sbarcarono nel continente Europeo proprio in Spagna: diffondendo il contagio in tutti gli altri Paesi. La Spagna, che era una nazione neutrale, fu la prima a parlare di questa epidemia (da qui il nome di spagnola). A Madrid vi era nel frattempo in programma, nel maggio del 1918, una commedia che aveva come colonna sonora una canzone che ebbe un enorme successo e si intitolava «Il soldato napoletano». Fu così che il morbo prese il nome di quella canzone. A etichettarne l’origine, anche un medico spagnolo, Luis Ibarra, che stabilì che la febbre ed il malessere del morbo erano provocati da un “accumulo di impurità nel sangue dovuto all’incontinenza sessuale” o, peggio ancora, colpa degli “eccessi di libidine” tipici dei napoletani, che avrebbero causato “uno squilibrio degli umori”. Insomma, qualcosa di simile alle accuse mosse per la sifilide che in Francia era stata chiamata “mal napolitain”. In realtà a Napoli di Febbre spagnola si parlò soltanto dopo la fine della prima Guerra Mondiale, soprattutto in conseguenza del fatto che, i soldati, tornati a casa, la diffusero tra la popolazione. Le prefetture fecero delle ordinanze che assomigliano molto a quelle di oggi: “Non starnutire e non tossire senza essersi coperta la bocca con un fazzoletto; non sputare in terra; non baciare, non dare la mano; non frequentare caffè, ristoranti e osterie affollati; salire in carrozza meno che si può; tenere aperte le finestre con qualunque tempo e in ogni luogo. Vivere più che si può all’aria libera; non fare visite né riceverne. Evitare soprattutto di recarsi negli Ospedali e in quei luoghi ove sono, o sono stati, dei malati; non viaggiare; respirare possibilmente attraverso il naso ed evitare di volgere la bocca a chi vi parla; disinfettarsi le mani prima di mangiare; fare mattina e sera sciacqui alla bocca e gargarismi con acqua e tintura di iodio. Pulirsi regolarmente i denti; non sollevare polvere nelle case. Lavare il pavimento con disinfettanti”. Rimane la considerazione che anche stavolta quindi, come nella storia delle passate pandemie c’è un pregiudizio comune che ed è quello di “altro da noi”. Un’epidemia non può mai diffondersi dal nostro territorio ma sempre da altrove. Lo è così stato anche per il coronavirus. È il virus cinese per noi, poi è stato quello italiano per gli altri. La stessa concezione, a livello locale lo si vuol moralmente addossare a Napoli che, come cento anni fa, con “il morbo del soldato napoletano” non c’entrava niente.