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Fersen tra sesso e droga: una vita spericolata a Capri

di Redazione
8 Dicembre 2020
in Events
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Seggiovia Monte Solaro

Fonte: Il Mattino

di Pietro Gargano

Su Il Mattino del 7 dicembre, Pietro Gargano racconta la storia del conte Fersen.

Questa è la storia di un uomo fin troppo raffinato, ricco assai, che passò dando scandalo nel suo tempo inquieto, gremito di peccatori e di moralisti irriducibili. Ambigua è perfino la sua morte.

20 febbraio 1880. Nasce a Parigi il barone Jacques d’ Adelsward. Il nonno, fondatore dell’ industria dell’ acciaio a Longwy-Briey, gli garantisce un futuro prospero. Ma la sua ammirazione è tutta per un antenato da parte materna, Hans Axel von Fersen, un conte svedese che era stato amante della regina Maria Antonietta. In seguito aggiunge Fersen al suo cognome. Più tardi si fa chiamare solo conte Fersen.

1903. A Parigi Fersen è coinvolto in uno scandalo, accusato con alcuni studenti di celebrare messe nere (lui le definiva «messe rosa») a sfondo sessuale nella sua casa al 18 di Avenue de Friedland. Sconta sei mesi di prigione, viene multato di cinquanta franchi e perde i diritti civili sul territorio francese per cinque anni. I salotti gli sbarrano le porte. La sessualità è ancora incerta, molti genitori – prima dello scandalo – hanno sperato di fargli sposare una figlia, per godere della sua ricchezza. Da qualche tempo Fersen era fidanzato con Blanche Maupéou, non si sa se fosse solo una donna dello schermo. Il legame scoppia e quando Jacques si ripresenta alla promessa sposa per chiedere perdono, viene scacciato. Tenta il suicidio, ma fallisce. Decide di partire. Vive, tra un viaggio e l’ altro, nella tollerante isola di Capri. L’ inclinazione omosessuale comincia a trasparire nelle sue poesie. Gli piacciono i ragazzini e ciò finirà per procurargli altri guai.

1904. Uno dei tanti che lavorano per lui, un ragazzo caprese, muore in un incidente e gli isolani protestano. Per far calmare le acque, il barone se ne va a Roma per qualche tempo. E lì avviene l’ incontro fatale. In via Veneto Fersen vede un adolescente che fatica da muratore e, per arrotondare, vende giornali. Ne è conquistato. Corpo acerbo e perfetto, nobili lineamenti. La poetessa Ada Negri aggiunge al ritratto di quel quindicenne «profilo da medaglia, sguardo pesante di chi ha occhi troppo lunghi, troppo neri e sormontati da sopracciglia troppo basse». Nino è orfano e povero, vive con la famiglia della sorella. Fersen non ha difficoltà a convincere il ragazzo a seguirlo a Capri. Gli promette una vita dolce e lezioni di base.

Il rifugio dei suoi peccati capresi è una villa costruita con quindicimila lire, soldi dell’ eredità, su una collina alla punta dell’ isola, non molto distante da Villa Jovis di Tiberio. La chiama Gloirette poi trasforma il nome in Villa Lysis, dal dialogo platonico Liside. In un viaggio a Hong Kong, compra una collezione di trecento pipe da oppio appartenute a un imperatore. Sono in oro, argento, avorio e pietre dure.

Vanno ad arredare il cuore della casa: la Camera Cinese o Opiarium.

Per lui Capri è rimasta la meraviglia vista da ragazzo nei suoi giri del Mediterraneo: «L’ eco del dolore del mondo, l’ isola chiara, l’ anima delle rose». Un sogno.

L’ edificio è dedicato alla «giovinezza d’ amore», sull’ architrave dell’ ingresso fa incidere il motto «Sacro all’ amore e al dolore». Affida il progetto ad Edouart Chimot, suo amico, e parte per l’ Oriente.

Non sceglie l’ esilio, lo subisce.

L’ edificio è un complesso monumentale art nouveau con elementi neoclassici. È immerso in cespugli fitti di orchidee, narcisi, camelie, rose, azalee, ortensie e gardenie. Niente buganvillee, troppo volgari. Boschetti di mirto e alloro, cupi cipressi seminascondono tempietti e statue classiche. Il barone Fersen è un uomo di gusto, predilige la sobrietà dei marmi di Carrara agli orpelli dannunziani. Disdegna la morale piccolo borghese. Come Pasolini ha una doppia vita. Raffinato intellettuale di giorno, quando cala il buio diventa cacciatore di ragazzi di vita. Il suo mondo nuovo si anima nelle stanze segrete della dimora. Tra i fumi dell’ oppio si innalzano canti agli dèi del vizio.

Processioni di fanciulli nudi posano per lui in quadri viventi, non manca mai Nino Cesarini, ritratto dallo scultore Paul Hoecker nel 1904 e da Francesco Jerace in una statua perduta. Nino è presentato come «il mio segretario».

1913. Oramai il barone è esule nella sua stessa isola. Nino è distratto, dal suo protettore ha assorbito l’ inquietudine. Forse ha una relazione con una ragazza e Jacques non può sopportarlo, anche se egli stesso è infedele. Vive appartato dal mondo, con le stimmate del diverso. Per colmare la villa di gioventù, promuove una pantomima per il ventesimo compleanno di Nino. È un grande tableaux vivant, replica di un rito pagano notturno celebrato da un sacerdote alla presenza di Tiberio. Alla fine, Nino diventa una divinità. Per i benpensanti, per i bigotti, è troppo. Fersen viene allontanato dall’ isola per delibera del consiglio comunale.

1915. Nino parte per la guerra ed è ferito al fronte. Al ritorno non è più il magnifico efebo ma un uomo maturo e complicato.

L’ amore in lui si scioglie in tenerezza. Guarda alla vita con un certo distacco.

1921. Nell’ estate Jaques si invaghisce di un bell’ adolescente, in vacanza al Quisisana con la famiglia. È Corrado Annicelli detto Manfred, siciliano. Viene a vivere anch’ egli nella villa. Ma è un palliativo. L’ amore è perduto per sempre, resta il dolore. A Fersen viene riscontrata una dipendenza grave da oppio. Va a Napoli per disintossicarsi, invano. Voleva fare della sua vita un capolavoro, nessuno l’ ammira più.

5 novembre 1923, sera. Fuori infuria una tempesta. Fersen si ritira nella camera cinese, piena di fumo. Sono presenti anche Nino e Corrado. È avvolto in una vestaglia di seta rosa, si abbandona sui cuscini, beve un cocktail di champagne e cocaina. Nino, che era andato in cucina, torna e lo trova in uno stato di semincoscienza.

«Quanti grammi?» grida. «Cinque» mormora Fersen aprendo il pugno. È la sua ultima parola secondo l’ articolo de «Il Mattino».

Il barone viene ricomposto nella camera ardente su una coperta di porpora, tra candele rosa e ghirlande di fiori. Il volto livido, circondato di tuberose, viene leggermente ombreggiato di rosa dall’ amica Ephi Lovatelli che ha inserito tra le labbra serrate un anello d’ oro proveniente dagli scavi di Tebe. Nessun prete vuole benedire la bara. Il corpo è portato a Roma per la cremazione. Le ceneri rientrano poi a Capri, dove riposano nel cimitero acattolico.

Un incidente? Un suicidio consapevole? La sorella di Jacques, Germaine, avvia una battaglia legale con Nino per avere la villa e lo accusa dell’ omicidio del fratello allo scopo di arricchirsi. È uno dei tanti particolari squallidi della fine. Il sindaco di Capri non gli concede molti onori, la casa viene sigillata, molti arredi sono trafugati e rivenduti da un antiquario locale. Corrado torna dalla sua famiglia in Sicilia. Diventerà attore. Nino cede la villa, per 200.000 lire, a Germaine. Torna a Roma, ricomincia a vendere giornali. Muore nel 1943.

Villa Lysis conosce decenni di abbandono. Tutto crolla e si sfarina nella umidità. Era consacrata all’ amore e alla morte, l’ amore non c’ è più. A fine anni Novanta un restauro le dà tocchi da bomboniera, fuggono pure i fantasmi.

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