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Enrico Vanzina: «Sono legatissimo a Napoli e Capri»

di Redazione
9 Marzo 2021
in Spettacoli
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Seggiovia Monte Solaro

Fonte: Roma

ROMA. Enrico Vanzina (nella foto), figlio d’ arte, sceneggiatore, scrittore, giornalista di successo, è l’ autore di un nuovo romanzo giallo dal titolo “Una giornata di nebbia a Milano”.

Maestro, la scrittura ha avuto sempre un ruolo predominante nella sua vita?

«Sono nato con l’ idea di voler fare lo scrittore, ma da giovane non avevo le idee ben chiare se volessi dedicarmi alla poesia, ai romanzi, o alla cronaca come giornalista.

La vita mi ha indirizzato inevitabilmente verso il cinema, essendo papà Steno, un regista di successo, e mentre mio fratello Carlo, da subito, si era appassionato alla macchina da presa, io scelsi la strada della sceneggiatura. Al mio attivo, come sceneggiatore, annovero 110 film, di cui 60 realizzati con mio fratello Carlo e 50 con altri grandi registi. Nel 1990, iniziai a collaborare come giornalista con “Il Corriere della Sera” su chiamata diretta di Paolo Mieli, dove ci sono rimasto per dieci anni, mentre da circa 20 anni collaboro con “Il Messaggero” dove scrivo di tutto, anche a volte in prima pagina, occupandomi anche di una mia rubrica personale. Da qualche anno scrivo romanzi prediligendo il genere “giallo” o “noir”, quale ad esempio “La sera a Roma”, un giallo che si articola tra realtà e fantasia. Quando è morto mio fratello Carlo ho redatto un romanzo, “Mio fratello Carlo”, ed è appena uscito un nuovo lavoro dal titolo “Una giornata di nebbia a Milano”, un giallo molto sorprendente».

Che differenza c’ è nell’ affrontare la scrittura in questi tre differenti comparti?

«In linea generale, bisogna scrivere con il sentimento e poi si tratta di tre segmenti diversi che si compensano a vicenda. In particolare, il giornalismo mi ha trasmesso la capacità di sintesi, la sceneggiatura mi aiuta a vedere la trama, le scene attraverso le immagini, mentre la stesura di un romanzo è il risultato del mixage tra queste due componenti. Nel cinema i dialoghi sono estremamente importati, mentre in letteratura ho sempre cercato di mantenere nella scrittura un ritmo dinamico, che non annoi il lettore, che sia rapido che non abbia del superfluo a differenza di molti libri italiani che sono pieni di pagine inutili, spesso di polemiche sterili, fatue».

Qual è il comune denominatore tra la sceneggiatura ed il romanzo?

«La modalità di procedimento è la stessa: in entrambi i casi si deve partire da un’ idea forte, una trama avvincente. Nel cinema non c’ è bisogno di descrivere tante cose, quali ad esempio l’ espressione del volto di un protagonista, perché ti aiutano le immagini tratte dalla macchina da presa, mentre in letteraura bisogna esprimere e descrivere i sentimenti senza mai sfociare nella banalità, avendo cura di salvare stile e linguaggio».


Lei ha una cultura umanistica?

«Sì, ho frequentato il liceo classico a Roma e sono sempre stato un divoratore di libri, prediligendo gli autori stranieri quali Heminguay, Dickens, Proust, Mann».


Saper scrivere rappresenta un talento?

«Sì, ma va coltivato, il cervello è un muscolo e come tale va allenato».

Il suo ultimo romanzo è ambientato a Milano: perché?

«Milano è una città a me molto cara, ci ho girato ben 18 film ispirati alle varie sfaccettature della sua comunità quali ad esempio “Via Montenapoleone”, ispirata alla borghesia milanese; “Sotto il vestito niente” che rispecchia le di namiche della moda milanese; Mentre in “Una sera a Roma”, ho raccontato un aspetto a me molto vicino della Capitale, quello dei grandi palazzi e di un jet set un po’ decaduto. In “Una giornata di nebbia a Milano” ho fatto un esplicito riferimento alla nebbia in senso metaforico, quasi a voler fare emergere il vero volto di una metropoli che non “si racconta”, molto ermetica.

La trama del giallo verte sulla figura di un uomo che è costretto ad attraversare questa coltre di nebbia per capire cosa succede nella sua vita e scoprire chi ha causato l’ omicidio di suo padre. Il mio intento, nella fattispecie, è stato quello di raccontare una “Milano della memoria” che io ho conosciuto bene e che continuo ad apprezzare, quella di Gaber, Jannacci… Non la Milano di oggi, votata al contemporaneo, che si è consegnata mani e piedi al “Bosco verticale”».


In questo momento storico è sempre più frequente la trasposizione audiovisiva di un libro: perché?

«Credo perché in questo periodo i produttori audiovisivi lamentino una certa scarsità di idee, e poi può essere certamente utile realizzare un prodotto audiovisivo, la cui idea è tratta da un romanzo già di successo; in tal modo si partirebbe con una marcia in più».


Se dovesse ambientare un libro a Napoli cosa immaginerebbe?

«Sono legatissimo a questa città che amo e frequento fin da bambino. Steno, il mio papà, era il regista di Totò e di Peppino De Filippo. Ricordo quando da piccoli papà ci portava puntualmente in treno da Roma a vedere tutte le commedie del mito Eduardo di cui era grandissimo estimatore. È a Napoli che ho cominciato a frequentare il set con la serie tv “Piedone lo sbirro” di Bud Spencer. Negli ultimi anni ho fatto tanti film ambientati a Napoli con attori che io amo molto quali Vincenzo Salem me, Carlo Buccirosso, Tosca D’ Aquino, Serena Rossi, Biagio Izzo. Personalmente ho una cognizione ben precisa sulla cultura partenopea da poter asserire che mi riuscirebbe molto facile scrivere un romanzo su questa splendida città.

Ho trascorso tutte le mie vacanze da bambino e da adolescente, e anche da adulto, a Capri e ad Ischia, sono affascinato dal modo di pensare della sua gente, del modo di affrontare la vita con leggerezza, umorismo ed estrema capacità reattiva, dalla naturalezza con cui si interfacciano il ceto alto con quello basso, l’ umorismo e la tragedia, la fame e l’ opulenza, l’ odio e l’ amore. Tanti gli amici napoletani che mi sono rimasti nel cuore, da Luciano De Crescenzo a Pep pino Patroni Griffi che mi ha fatto scoprire come, nel linguaggio, nella cucina, nella cultura in generale partenopea, ci sia una forte contaminazione del mondo medio orientale».

È appena terminato il Festival di Sanremo: qual è il suo rapporto con la musica e, in particolare, con quella napoletana?

«Straordinario, io sono un musicista mancato, suono benissimo il pianoforte fin da ragazzino, tant’ è che da giovane facevo anche pianobar. Mi reputo un grande estimatore della musica napoletana, al punto che io e mio fratello Carlo, alla fine del film “Caccia al tesoro”, abbiamo voluto fare un omaggio a Pino Daniele. Sono amico del maestro Sciarro, artista epigono di Pino Daniele, ed ho lavorato con Nino D’ Angelo in un film».

La scomparsa di suo fratello Carlo ha provocato un vuoto incolmabile…

«Sì, non a caso subito dopo la sua morte ho scritto un libro, “Mio fratello Carlo”, che narra non la sua vita di brillante regista, ma gli ultimi due anni di vita dell’ uomo che scopre di avere un brutto male».

La scrittura ha quindi anche un effetto terapeutico?

«Non credo mi sia servita a lenire il mio profondo dolore; il libro ha avuto grande successo in tutta Italia, ma ogni volta che l’ ho presentato si sono riaperte le mie grandi ferite».

Cosa le manca di suo fratello Carlo?

«Il quotidiano. La nostra chiacchierata mattutina in cui prima di dedicarci al lavoro, parlavamo di cronaca, di attualità, confrontandoci su più argomenti. Io e mio fratello eravamo caratterialmente e fisicamente profondamente diversi, ma avevamo la stessa visione del mondo, lo stesso modo di concepire la vita e di raccontarla; forse questa era la nostra forza che ci ha permesso di lavorare per tanti anni tutti i giorni insieme in armonia e con rispetto reciproco, senza mai discutere».

La sua più grande dote è l’ umiltà…«Questa caratteristica ce l’ ha trasmessa papà, che ci ha sempre detto di non montarci mai la testa di fronte al successo di un film, di camminare con i piedi per terra.

Bastava che due lavori successivi non andassero bene perché svanisse tutto in una bolla di sapone».

Ha qualche rimpianto?
«Sì, da giovane volevo una storia d’ amore con Jane Fonda, mentre Carlo sognava Brigitte Bardot. Poi avrei voluto attraversare la Russia con la Transiberiana. Quando Carlo, essendo lui molto tifoso, era malato, avrei voluto che la squadra di calcio della Roma vincesse lo scudetto che, purtroppo, non è arrivato. E poi, ho anche qualche rimpianto personale, perché anche io qualche cattiveria l’ ho fatta e invecchiando si può finalmente dire la verità ed ammettere di avere commesso errori. Ho sbagliato e ringrazio chi mi ha perdonato. Ho fatto anche io del male e mi pento di ciò anche se il pentimento non va esibito».


Il suo futuro nel cinema?

«Quando Carlo se n’ è andato mi sono avvicinato al mondo di “Netflix” ed ho avuto molto successo con “Sotto il sole di Riccione”. Le piattaforme sono un mondo nuovo per noi “vecchi dell’ audiovisivo” ma anche se complicato, danno grandi soddisfazioni professionali».

L’ Italia, come gli altri paesi del mondo, non è ancora uscita dalla pandemia: qual è il suo augurio?

«Non credo che l’ umanità ne uscirà migliorata da questo stato di calamità mondiale, anzi penso che ne usciremo tutti peggiorati. Il mio augurio è che ognuno di noi, avendo avuto più tempo per fare un’ analisi personale introspettiva, abbia acquistato la consapevolezza che “Nessuno si salva da solo” e che “Chi sono io per giudicare gli altri?” ricorrendo alle espressioni di Papa Francesco».

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