Fonte: Il Mattino
di Ernesto Mazzetti
C’ eravamo appena incrociati, sull’ affollato traghetto per l’ isola. La nostra isola, quella della casa materna di Francesco; e quella da decenni scelta da me per il mio «meriggiare dietro il rovente muro d’ orto».
Meta non di vacanze, ma di villeggiature. Brevi, quanto appaganti: per gli incontri non frequenti nel corso dell’ anno, le conversazioni divertite e coinvolgenti, la frequentazione d’ antichi ed amati siti. Tragicamente breve stavolta per Francesco. Cui un crudelissimo destino ha imposto la brevità innaturale d’ una sola notte senza più risveglio.
Tanti anni di soggiorni capresi m’ hanno avvicinato a Francesco più di quanto non abbia fatto la comune professione giornalistica. Nel contesto caprese, la distanza generazionale, le esperienze di vita e in testate diverse mai riuscivano a rendere men che solidale, cordiale, amichevole e stimolante ogni occasione d’ incontro. Nelle case, nei caffè, nelle librerie predilette da entrambi. In quelle presentazioni di libri o di mostre che ci apparivano meno banali, tra le tantissime proposte delle fin troppo congestionate estati isolane.
L’ insediamento nell’ isola di Roberto Ciuni che nuovamente radunava almeno in parte i «Ciuni boys» de «Il Mattino» anni 80, con aggregazioni esterne: Giuliano Zincone, il sottoscritto ed ogni collega che si trovasse almeno temporaneamente nell’ isola. L’ estate offriva a Francesco non solo le peregrinazioni marine agli scogli di Gradola o la più confortevole navigazione sul gozzo di Attilio Magrì, ma soprattutto momenti per un pieno abbandono alla sua passione più vera, quella letteraria.
Ma la letteratura per Francesco era anche gioco. Nel tentativo di sovrastare la mestizia per la perdita repentina e sconvolgente dell’ amico e collega ricerco il ricordo d’ un suo sorriso che mi faccia nuovamente sentire a lui vicino, rileggendo un libricino che tanti anni fa, in uno dei suoi soggiorni capresi, aveva escogitato sul modello dei limerick anglosassoni. Sedici composizioni scherzose intitolate Donnacrapa catoblepa, affidate alle edizioni della Conchiglia. Versi fulminanti, canzoncelle, perfino anacreontiche, dissacranti battute su illustri poeti, parodie sfottenti di personaggi isolani, rime salaci su turisti d’ ogni sesso. La profonda cultura segnava il suo stile di vita fatto di amabilità mai contaminata da compiacimento.
Cantante intonato e con ottima voce, cedendo a lusinghe di familiari ed estimatori, anni fa rallegrò un’ estate caprese organizzando con musicisti amici una serata dedicata alla canzone americana, della quale si rivelò efficace interprete, applauditissimo dal pubblico che affollava i Giardini della Flora Caprese.
Insomma per Francesco sempre l’ America: scritta e cantata.
Una vita intensa e piena, la sua, con l’ amata consorte Alessandra, a sua volta editrice di testi dedicati a Capri, le figlie Costanza e Libera. Nei paradossi, nella contaminazione dei generi culturali, nell’ amore per i «suoi» luoghi, Anacapri, Napoli, la paterna terra veneta, l’ America, le isole greche, Francesco aveva costruito l’ altra metà del suo mondo intellettuale, omogeneo e coerente con l’ altra metà propriamente giornalistica.
Amando i paradossi, nel risvolto di copertina del citato libricino di limerick, scrisse di sé stesso che «cerca disperatamente di crescere un prato all’ inglese sotto un sole anacaprese».
Non so se negli anni questa impresa gli sia riuscita, e se sia divenuta finalmente verde l’ erba che circonda la casa d’ Anacapri. Nella tristezza di questo momento vorrei augurarmi che verdi pascoli possano alleviare il suo cammino eterno, così prematuramente intrapreso.