di Lembo Luigi
Pochi ricordano che Capri è stata per lungo tempo sede di luoghi di detenzione. Già nell’800, nel palazzo del Vescovado, prima che l’esproprio lo destinasse a sede del Municipio, alcuni locali erano adibiti alla segregazione dei colpiti da censure ecclesiastiche. Le carceri civili si trovavano in tempi diversi nell’attuale bar Caso, in alcuni locali del palazzo Monaldi (l’ex monastero S Teresa) e nel palazzo detto “Il Seminario” Durante la Prima e la Seconda Guerra si ebbero varie sedi provvisorie fino all’ultima nei locali sottostante la oramai ex Pretura. Al di la di questo, la detenzione a Capri ha assunto nel tempo sempre un momento in cui definirla “pena” era un eufemismo. A questo hanno contribuito spesso la figura di carcerieri che più che spietati esecutori di pena erano quasi ospitali custodi dei fortunati detenuti. Tra questi personaggi mi piace ricordare uno la cui figura viene sagacemente descritta in un racconto di Alberto La Femina. Il personaggio è Alfonso La Femina. Alfonso, nato a Pagani, in provincia di Salerno, dove aveva un bar; venne un giorno in vacanza sull’Isola e qui incontrò e si innamorò della caprese Concetta Striano. Deciso a sposarsi, regalò il bar ad un fratello e si trasferì a Capri (tuttora a Pagani c’è un bar che si chiama “La Femina”, gestito da suoi lontani parenti). A Capri Don Alfonso faceva il carceriere, che qui non era un mestiere duro come si potrebbe pensare. Da un articolo del Reader’s Digest del 1950 ( per chi non lo ricorda un periodico molto letto all’epoca) che si intitolava “Tutti felici a Capri”, veniva ricordato definendo la prigione una graziosissima casa del `700, e raccontando che era raro che ci fosse qualcuno in prigione, cosa molto utile, perché il carceriere aveva undici bambini e adoperava le celle per farci dormire i marmocchi ed i cortili delle celle per farli giocare. Alfonso era di carattere molto severo, pretendeva la massima educazione e diligenza nello studio e non voleva che i suoi figli andassero a zonzo per le strade dell’isola senza far niente. L’unico che riusciva a prenderlo per le buone era suo figlio Gerardo, il più piccolo, che, quando disobbedendo usciva di nascosto da casa, se lo incontrava non si nascondeva o scappava, ma con aria scanzonata gli andava vicino dicendo: “Ciao papà!”. Si racconta che, quando era giovane, uno zio prete un giorno lo chiamò per portare 500 lire ad un notaio, ma siccome era chiuso gli ritornò i soldi. “Ah povero fesso”, disse lo zio prete, “se ero io quei soldi li avevo già spesi!”, “Ah sì!”, pensò Don Alfonso. Lo zio il giorno dopo lo rimandò dal notaio, ma di Don Alfonso non si seppe niente per una settimana. Tutti i familiari erano preoccupati che gli fosse successo qualcosa, ma in realtà era semplicemente andato a farsi una vacanza in costiera amalfitana con le 500 lire. Alfonso La Femina aveva anche una grande passione: quello di giocare a scopa e aveva numerosi amici avvocati che avevano la stessa passione. Quando si ritrovavano tra di loro si divertivano ad inscenare finti processi con difesa, imputato, accusa, giudice e testimoni. Allora a Capri c’erano pochi svaghi, per cui la cosa era molto divertente. Il nipote lo ricorda ancora mentre scendeva verso via Camerelle passando sotto l’arco della chiesa, vicino al bar Tiberio, con un incedere lento e un bastone. È l’immagine di una Capri in bianco e nero, che ricorda tanto nei personaggi e negli ambienti la trama di un racconto di Guareschi, una Capri tanto lontana da quella dei nostri giorni….